L’Italia in Libia, l’attesa è finita

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Sembra suonata l’ora x per il contingente italiano che dovrà intervenire nella guerra civile post Gheddafi. E mentre a Bengasi si brucia il tricolore, il Belpaese prepara lo sbarco sulla quarta sponda

di Maurizio Zuccari

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L’attesa è finita per una nuova avventura dell’Italia in Libia. Dopo mesi di tira e molla sembra suonata l’ora x il contingente italiano che dovrà dare una mano per la messa in sicurezza del paese, come tutti fuorché i diretti interessati vogliono. La pezza d’appoggio che l’Onu chiedeva per intervenire è giunta dal premier Fayez al-Serraj, a capo del governo di Tripoli raffazzonato grazie al pressing dell’Onu stessa con esponenti tribali non certo di spicco del dopo Gheddafi. Ora i governi occidentali si dicono pronti a fare la propria parte per proteggere pozzi e impianti dalle mire dell’Isis. E, ovviamente, l’Italia dovrà intervenire militarmente sulla quarta sponda per la terza volta nella sua storia recente, anche se ancora traccheggia sul come e quanto, se con poche centinaia d’uomini o più, e se gli Amx di stanza a Trapani dovranno bombardare o limitarsi a sorvolare Tripoli bel suol d’amore. Ma non è questa l’incertezza maggiore per l’Italia nel nuovo fronte che va aprendosi in concomitanza alla spedizione a Mosul, per fare fronte comune all’onnipresente baubau del califfato dietro insistenza Usa.

Il guazzabuglio libico è, se possibile, più complesso del ginepraio iracheno. Dei quattro governi che si contendono il paese sprofondato nella guerra civile alla caduta di Gheddafi, nel 2011, quello di Tripoli è il solo avallato dall’Onu, finora a chiacchiere. L’altro, a Tobruk, gode del sostegno dell’Egitto di Al Sisi e degli Emirati, che armano la mano e le colonne mobili del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte di Tobruk, impegnato a ripulire Bengasi dalle milizie di Al Qaeda e dei Fratelli musulmani, e pronto a far marciare i blindati appena ricevuti in barba all’embargo su Sirte, in mano all’Isis. Coadiuvato nell’operazione da Francia e Gran Bretagna coi loro commando e caccia. Allora, l’appello di Tripoli a fare presto, con l’Italia volenterosamente gettata dagli alleati in prima linea tra le fazioni pur di non farle perdere un treno su cui farebbe bene a non salire, è un gioco delle parti volto a fare del nostro paese il solito vaso di coccio tra svariati di ferro. Preso tra i veti incrociati delle milizie e gli estremisti islamici che minacciano di portare la guerra a Roma, la volontà di Obama-Hillary di sfilarsi dal caos libico da loro innescato e le doppiezze degli alleati occidentali.

Già da un anno l’ambasciatore Usa a Roma John Philips chiede per conto della casa Bianca l’invio di 5.000 uomini per fare fronte allo scellerato interventismo e successivo disimpegno – il mio errore più grande, ha ribadito anche di recente il presidente nero – del suo principale alla Casa Bianca. Un contingente poi ridimensionato a un migliaio di uomini, e ora attestato attorno alle poche centinaia. Forse appena una compagnia, necessaria a garantire la protezione della base tripolina e la scorta ai funzionari dell’Onu, inclusi il rappresentante delle Nazioni Unite Martin Kobler e il suo consigliere militare, il generale degli alpini Paolo Serra, che dovranno curare i rapporti con il governo di Al Serraj. Il punto è, numeri a parte, che il governo riconosciuto dalla comunità internazionale controlla nominalmente una fetta risibile del paese, di fatto alcuni palazzi governativi a Tripoli, e l’intervento manu militari dell’Italia, sotto mandato Onu, dovrà in primo luogo renderne possibile l’effettivo insediamento e la sopravvivenza.

Un esecutivo simile non ha né i mezzi né la volontà di combattere gli estremisti, e la generica richiesta d’aiuto ai paesi europei e africani al vertice di Hannover cela, oltre alla propria impotenza, la preoccupazione che il governo concorrente di Tobruk possa avvantaggiarsi troppo nella corsa al petrolio libico. Renzi finora non ha ceduto a chi lo tirava per la giacchetta in questo gioco a perdere – e questo è uno dei suoi rari meriti in politica estera – ribadendo anche in questa occasione che la priorità per l’Italia è la difesa dei pozzi petroliferi dell’Eni, nella parte occidentale del paese, senza volersi lasciar coinvolgere nella lotta per i giacimenti di Brega, Ras Lanuf e Sidra, a oriente, ma l’attesa è finita e sulla quarta sponda tornerà presto o tardi a sventolare un tricolore da sforacchiare. A Bengasi già lo bruciano in strada. È un buon inizio.

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Maurizio Zuccari
Giornalista e scrittore, è nato il primo novembre 1963 a Poggio Mirteto, in Sabina, e vive a Roma. Dopo l’alberghiero a Rieti e la leva come ufficiale di complemento a Firenze, si è laureato in scienze politiche alla Sapienza di Roma (Comunismo e titoismo, con Pietro Scoppola, 1994) e si è specializzato in scienze della comunicazione (Il consenso videocratico: masse, media e potere nella transizione dalla partitocrazia alla telecrazia, con Mario Morcellini, 1996). Ha scritto su Paese Sera, il Manifesto, Diario, Medioevo, Archeo, Ragionamenti di Storia (dove ha provato, grazie a documenti inediti, l’uso dei gas da parte dell’esercito italiano nella guerra d’Etiopia). Ha ideato e diretto il mensile Cittànova (1996-97). È stato caporedattore dei periodici d’arte Inside Art e Sofà (2004-2014). È opinionista sul quotidiano Metro e su Agi. Ha pubblicato il Dito sulla piaga. Togliatti e il Pci nella rottura fra Stalin e Tito, 1944-1957, Mursia, 2008. Con questa casa editrice è uscito il romanzo fantastorico Cenere (2010), primo di una trilogia sul mito. Sito www.mauriziozuccari.net.

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