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Marighella, biografia reticente di un rivoluzionario

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Il film Marighella oppure come rendere appetibile la storia ai gusti liberisti [da São Paulo, Solange Cavalcante]

Dopo due anni di attesa, il film Marighella, del regista Wagner Moura, è stato finalmente liberato nelle sale brasiliane, d’altronde Moura approfitta approfitta del suo peregrinaggio per pubblicizzare il film per parlare  della censura del  governo Bolsonaro sulle opere non consoni alla sua linea politica.

Su Bolsonaro Moura non mente – dato che il clima in Brasile è di censura e di aggressioni contro tutti i diritti. Guardando il suo film però, si capisce che la censura contro la storia del guerrigliere Carlos Marighella l’ha fatta lui per primo, non il governo.

Nato a Salvador di Bahia, Carlos Marighella era figlio di un immigrato italiano e di una nera dell’etnia hausa – e quindi era nero, di conseguenza. Scrittore e poeta, era colto, carismatico e circondato da amici tra studenti e intellettuali. Proprio per questo è stato eletto due volte deputato per il Partito Comunista Brasiliano (PCB), nonostante sia statocacciato tutte le due volte a causa della dittatura Vargas (nel 1948) e dai militari (nella dittatura iniziata nel 1964 e durata fino al 1985). Moura però ha creato un Marighella solitario e messo all’angolo, diversissimo dal carismatico rivoluzionario meticio.

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Nel suo film il popolo è assente. Non ci sono gli scontri ne le manifestazioni storiche a favore o contro la dittatura. I nemici militari sono invisibili: i loro nomi e cognomi, i loro grado militare, i loro crimini e le loro responsabilità storice – niente di questo è descrito nel film. Fosse un film di Fellini, i militari comparirebbero magari in quei sogni privi di chiarezza. Moura invece non ha il talento di Fellini.

Come sceneggiatori, Wagner Moura e Felipe Braga sono figli tipici della scuola di sceneggiatura Rete Globo di Televisione, senza alcuna ispirazione, conoscenza o curiosità per i testi geniali di Elio Petri e Ugo Pirro, ad esempio, a proposito di film politici. Gli altri sceneggiatori brasiliani tutti della stessa scuola, campano con la diluizione di grandi personaggi come Marighella, mescolandoli a trame fittizie sulla loro vita privata, per creare suggestioni emotive e non la vera conoscenza dei fatti.

Nel film Marighella, Moura e Braga scommettono sul ruolo del guerrigliere come il padre amorevole che insegna a nuotare al figlio, che fa promesse e che gli registra nastri di addio, un fatto che non è mai esistito. Hanno trovato impossibile tradurre in linguaggio cinematografico che volere giustizia per tutti è già amore. E sì, le licenze poetiche sono sempre ammesse. Ma buchi deliberati nella storia dovuti alla pigrizia, al risparmio con il budget o alla paura dei potenti, no.

Nel film vengono cancellati i simboli della lotta rivoluzionaria e della sinistra in generale,  come il colore rosso, i pugni alzati in aria, la falce e martello, le foto di Guevara, i discorsi e le scene originali di nemici e personaggi dell’epoca, gli slogan scritti sui muri e la fantastica colonna sonora di canti di protesta di Chico Buarque, Caetano Veloso e Geraldo Vandré: “Vieni, andiamo via/che aspettare è non sapere/Chi sa agisce/ E non attende l’accadere”. Il risultato è un Marighella slegato dalle atmosfere del mondo che lo circonda.

Episodi drammatici, come l’espulsione di Marighella dal Partito Comunista, si riducono a una conversazione tra due, nella quale un intero partito è rappresentato da un giornalista inventato, di nome Jorge Salles (Herson Capri, dal casting delle telenovelas della Rete Globo). Questa tecnica sarebbe accettabile se non fosse usata fino all’esaurimento durante l’intero film. Per risparmio Partiti, giornali, esercito, aeronautica e marina militare sono tutti rappresentati da singoli personaggi che rappresentano tutti gli altri.

Nel film, il gruppo politico nella clandestinità di Marighella, (l’ALN, Aliança Libertadora Nacional) è rappresentato da quattro gatti squilibrati – qui Wagner Moura non cambia assolutamente la forma come i rivoluzionari dell’epoca vengono sempre descritti nel cinema brasiliano. Loro sono stati ridotti a personaggi inventati, senza cognome, senza storia, senza empatia e con una natura sociopatica. Altrimenti, perché quell’Almir, un personaggio amico di Marighella non dovrebbe essere chiamato con il nome giusto del giornalista, traduttore e rivoluzionario veramente esistito JOAQUIM CÂMARA FERREIRA? Sarebbe stato una figura esecrabile? La sua famiglia non permette che venga nominato? O il regista del film si è autocensurato (prima ancora che lo facesse Bolsonaro) per non fare brutta figura con i produttori/sponsor?

Perché il delegato e torturatore della Polizia Politica, di nome e cognome SERGIO FERNANDO PARANHOS FLEURY, pagato dalla borghesia di San Paolo (di cui tutti ne sanno nomi e cognomi) per sparire con prigionieri politici e criminali comuni attraverso gli squadroni della morte, appare come delegato Lucio? Lucio cosa? Lucio a ordine di tra i militari (anche questi con nomi e cognomi, come il presidente-generale EMILIO MEDICI)? Fleury, tra l’altro, divenne così intimo con i dittatori che, ogni volta che veniva citato in una causa per abuso di potere, arruolava ufficiali delle tre braccia per testimoniare in suo favore. Tutti sanno i loro  nomi e cognomi. Perché Moura no li cita nel suo film?

Quando, per esempio, del rapimento dell’ambasciatore americano Charles Elbrick nel 1969, l’ALN ha condizionato il suo rilascio alla lettura integrale di un manifesto su giornali, radio e TV. Fu CID MOREIRA (con nome e cognome), il condutore TG più noto in Brasile a leggere il manifesto, nel TG 1 della Rede Globo. Nel film, il manifesto viene letto da tizio qualsiasi sotto un cartello con scritto TV J. Potrebbe essere TV X o TV Z, senza alcun coinvolgimento vero con la realtà.

Ma perché non nominare i frati domenicani FERNANDO DE BRITO E YVES DO AMARAL LEBAUSPIN, che il delegato Fleury torturava e ha usato per adescare e uccidere Marighella? Quale è stato il loro crimine, secondo Moura, per evitare i loro nomi nel suo film? Sarebbe stato il reato di “baciatori traditori”, di “vigliacchi”, di “sfortunati” e di aver consegnato Marighella con “tattica meticolosa”, come ha scrito all’epoca  Roberto Marinho (capo della Globo), nell’editoriale del suo giornale iintitolato “Il bacio di Giuda”? Il nome Marinho, tra l’altro, non compare mai in Marighella.  Allora: chi è che censura il film di Wagner Moura?

Prima che venissero a pubblicare ricette di torte tra i testi dei loro giornali a causa della censura, i gruppi di giornali Estado de S. Paulo e Folha de S. Paulo hanno sostenuto il golpe militare. È stato provato che la Folha ha prestato i suoi camion per scaricare i cadaveri dei prigionieri politici. E  indovinate cosa. Nessuno di loro è citato nel film Marighella.

La mancanza di un buon testo, che poi non cita alcuna analisi della situazione, filosofia politica, autori o importanti intellettuali, ne Marx ne niente), le scene di tortura diventano allora la facile soluzione del regista, quasi l’apice della sua produzione con  l’appello alla truculenza.

Alla fine, tutto può peggiorare. Quel gruppetto di sociopatici squilibrati torna dal nulla (come se il regista si ricordasse che potrebbe usare i sogni di Fellini come riferimento. Loro si mettono a urlare e saltare, cantando l’inno nazionale brasiliano a squarciagola – non Bella Ciao o L’Internazionale Socialista, come fanno tutti i compagni di sinistra, ma l’inno brasiliano. Daltronde si capisce perché il rapper brasiliano Mano Brown, poeta metticcio della lotta nelle periferie brasiliane, ha abbandonato il ruolo da protagonista del film: perché la storia che Moura ha scelto di raccontare è imbarazzante. me ne andrei anch’io.

* “Il Brasile era tappezzato da famigerati manifesti gialli dei ricercati, divenuti famigliari per tutti i brasiliani, sui qualli campeggiava la foto segnaletica del cosidetto terrorista Carlos Marighella. Il delegato Sergio Fleury ottiene carta bianca dal generale-presidente Medici per iniziare a dargli la caccia. La battuta comincia con l’arresto di alcuni frati domenicani, amici di Marighella, tra i quali Fra Betto e Tito Alencar, che appoggiavano la resistenza alla dittatura. Frate Tito sará torturato da Fleury in persona che, in abito talare, facendosi baciare la mano, imponeva di essere reverenzialmente chiamato Papa. Altri due frati Fernando de Brito e Ivo Lesbupin, furono anc’essi torturati. La notte del 4 novembre del 1969,  Fernando e Ivo convocano l’amico Carlos per un incontro. Il guerrigliero appare puntuale come sempre nel luogo fissato dai frarti. Nel Maggiolino parcheggiato nell’ombra, Carlos scorge il volto dei fratelli, e si avvicina. Non poteva sospettare di essere oramai circondato da 40 poliziotti che, a un gesto di Fleury, cominciano a fare fuoco.

Carlos Marighella

Roberto Marinho, proprietario della Rete Globo, stava per godersi la sua vendetta personale per l’umiliazione subita al Tg Nazionale di Rete Globo. Nell’editoriale O Globo accusa i frati domenicani di aver tradito prima di tutto la chiesa, e poi l’amico: “Che la codardia di questi infelici frati serva di lezione a tutti coloro che seguono per i sentieri scabrosi del tradimento dei valori”. Altro che codardia. Frei Beto passerà quattro anni a marcire in galera. Frei Tito continuerà a essere perseguitato dalle torture di Fleury che, vestito da Papa, lo condurrà al suicidio.

Quella stessa notte del 4 novembre del 1969, novantamila tifosi erano reuniti nello stadio del Pacaembu, a San Paolo del Brasile per assistire al classico derby Corinthians contro Santos. Siamo a pochi minuti dalla finale della partita. Il Corinthians conduce con un sorprendente 4-1, grazie al centrocampista Roberto Rivellino, che quella sera sarà più Rei dello stesso Pelé. È tutto troppo bello per i corinthiani, fino al momento in cui la voce metallica degli altoparlanti dello stadio annuncia un comunicato ufficiale: “La Segreteria di Sicurezza Pubblica dello Stato di San Paolo fa sapere che oggi, in un conflitto a fuoco con la polizia civile, è stato ucciso il terrorista Carlos Marighella” (tratto dal libro Compagni di Stadio – Sócrates e la Democrazia Corinthiana”.

O filme Marighella ou como ajustar a História ao gosto neoliberal e palatável

Com Marighella finalmente lançado, Wagner Moura tem peregrinado pela imprensa especializada, relatando o boicote que seu filme sofre desde o malfadado lançamento, em 2019. Mas se Moura não mente, porque o clima no Brasil é mesmo fascista, o diretor não é totalmente honesto. Basta um mínimo conhecimento sobre a biografia do revolucionário baiano e o contexto em que ele viveu para perceber que Moura censurou seu próprio filme e a História, a fim de permanecer “bem na fita” com quem manda na indústria cultural, na indústria do entretenimento e com quem sempre deu as cartas, no Brasil.
Moura criou um Marighella solitário e acuado, diferente do deputado federal e revolucionário culto, carismático e estimado no meio político, cercado de amigos, apoiadores, intelectuais e estudantes – mesmo que esse apoio não pudesse ser ostensivo.
No filme há a completa ausência de manifestações, de confrontos, da fala e da presença do povo (do campo e das cidades), contrário ou a favor da ditadura militar. Os militares são invisíveis – seus nomes, patentes, crimes e responsabilidade histórica não são explicitamente descritos. Fosse um filme felliniano, os militares seriam sonhos incompreensíveis. Mas Moura não é Fellini.
Em Marighella, a ambientação é, na maior parte, fechada e com pouca luz. Isso pode ser mais do mesmo da pobreza da fotografia do cinema brasileiro. Esse poderia ser um recurso para indicar a claustrofobia do contexto, mas parece mais que Moura se iludiu ou quis iludir o público, querendo contar essa história em poucas pinceladas intimistas.
Como roteiristas, Wagner Moura e Felipe Braga são típicos filhos da escola Globo de roteiros, sem a menor inspiração ou curiosidade pelos textos geniais de Elio Petri e Ugo Pirro, por exemplo, quando se trata de filmes políticos. Os roteiristas nacionais, todos da mesma escola, vivem de diluir grandes personagens como Marighella, misturando-as a tramas fictícias da vida privada, para criar apelo emocional e não o conhecimento dos fatos (vide a bobajada em torno das biografias de Pedro I e Pedro II, na tevê, e as biografias dos Joõesinhos Trinta e das Hebes Camargo, no cinema).
Em Marighella, Moura e Braga apostaram no fio condutor do pai amoroso que ensina o filho a nadar, que faz promessas e que grava fitas de despedida – fato que nunca existiu. Eles acharam impossível traduzir em linguagem cinematográfica que querer justiça para todos já é amor. E sim, licenças poéticas são sempre permitidas. Mas furos propositais na História por preguiça, por economia, por comprometimento ou medo dos poderosos, não.
No filme há o apagamento de símbolos da luta revolucionária/da esquerda como a cor vermelha, punhos fechados erguidos para o ar, da foice e do martelo, de fotos de Guevara, das falas e cenas originais dos inimigos e personalidades da época, da fantástica trilha sonora de músicas de protesto e de slogans escritos nos muros. O resultado é um Marighella desconectado da atmosfera do mundo que o cercava.
Episódios dramáticos, como a expulsão de Marighella do Partido Comunista, é reduzido a uma conversa a dois, na qual, por superficialidade ou economia, um partido inteiro é representado por um jornalista inventado, um tal de Jorge Salles (Herson Capri). Esse recurso seria aceitável, se não fosse usado à exaustão no filme inteiro. Ele abusa dos personagens/tipo que representam multidões de outras pessoas.
No filme, A Aliança Libertadora Nacional (ALN) é representada por cinco ou seis gatos pingados com cara de desequilibrados – aliás, quando é que os revolucionários da época foram descritos de forma diferente, na nossa indústria cultural, senão como personagens inventados, sem sobrenome, sem história, sem empatia e com índole sociopata? Não fosse assim, qual a razão do tal Almir não ser chamado pelo nome justo do jornalista, tradutor e revolucionário JOAQUIM CÂMARA FERREIRA? Ele teria sido uma figura execrável? A família não permite que ele seja citado? Ou o diretor do filme se autocensurou (antes mesmo que Bolsonaro o fizesse) para não ficar mal com os produtores/patrocinadores?
Por que o delegado torturador do DOPS, com nome e sobrenome SERGIO FERNANDO PARANHOS FLEURY, pago pela burguesia de São Paulo (com nome e sobrenome) para desaparecer com presos políticos e criminosos comuns através dos esquadrões da morte, aparece como delegado Lucio? Lucio de quê? Lucio a mando de quem, entre os militares (com nome e sobrenome, como EMILIO GARRASTAZU MEDICI)? Fleury, aliás, tornou-se tão íntimo dos ditadores que, cada vez que era citado num processo por abuso de poder, arrolava oficiais das três armas para testemunharem a seu favor. Todos com nome e sobrenome.
Quando, por exemplo, do sequestro do embaixador estadunidense Charles Elbrick, em 1969, a ALN condicionou sua soltura à leitura integral de um manifesto nos jornais, nas rádios e na tevê. Foi CID MOREIRA (com nome e sobrenome) quem leu o manifesto. Na Rede Globo. No Jornal Nacional. No filme, o manifesto é lido por um apresentador sem nome, numa rede chamara TV J. Poderia ser uma tevê X ou tevê Z. Sem nome.
E por que não nomear os frades dominicanos FERNANDO DE BRITO E YVES DO AMARAL LEBAUSPIN, que Fleury torturou e usou para atrair e matar Marighella? Qual foi o crime deles, segundo Moura, para seus nomes serem evitados? Seria o crime de “beijoqueiros da traição”, de “covardes”, de “infelizes” e de terem entregue Marighella com “tática meticulosa”, como escreveu Roberto Marinho, no editorial de O Globo chamado “O beijo de Judas”? O nome Marinho, aliás, passa longe da narrativa. Então: quem é que censura o filme de Wagner Moura?
Clara Charf era quadro de partido e feminista atuante. Não é nem nunca foi uma dona de casa chorosa. As três aparições da personagem, no filme, não fazem justiça a ela. A presença de Adriana Esteves, do casting da Globo, é um recurso comum no cinema brasileiro, para “levantar” o filme. Presenças VIP como a dela e de Bruno Gagliasso importam mais do que contar a história verdadeira. É a velha guerra entre forma e conteúdo, e aqui Wagner Moura escolhe o lado em que sua produção quer estar.
Antes de publicar receitas de bolo entre os textos de seus jornais por causa da censura, os grupos Estado e Folha de S. Paulo bem que apoiaram o golpe militar. É provado que a Folha emprestava seus caminhões para a desova dos cadáveres de presos políticos. E adivinhem. Nenhum deles é mencionado, no filme Marighella.
Carente de bom texto (nada de análise de conjuntura, filosofia política, citação de autores ou de intelectuais importantes, Marx, nada), as cenas de tortura tornam-se, então, a solução fácil do diretor, quase como o ápice da produção – e por isso totalmente dispensáveis. Amigo, se você dispensou todo o resto, não venha com o recurso da truculência.
No final, tudo pode piorar. Aquele grupinho de desequilibrados sociopatas volta do nada (como se o diretor se lembrasse que podia usar Fellini como referência, na questão dos sonhos) e se mete a gritar e pular, cantando o hino nacional. Não é Bella Ciao nem A Internacional Socialista – é o hino nacional. Eu digo que em mais de quarenta anos de militância, nem eu nem os companheiros todos nunca nos vimos minimamente inclinados a cantar o hino nacional. Quem cria essa sequência, num filme, não sabe nada de nós.
E aí finalmente compreendemos porque Mano Brown abandonou a produção e o papel de protagonista – é porque a história que Moura escolheu contar é constrangedora. Eu também abandonaria.
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