Goldrake è vivo e lotta insieme a noi

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A proposito di Distruggi il male, il nuovo romanzo di Luca Cangianti per DeriveApprodi [Fabio Ciabatti]

Il terzo romanzo di Luca Cangianti, Distruggi il male (DeriveApprodi, p. 128, € 15,00) è per certi versi un azzardo, ma forse un azzardo necessario. Dopo Sangue e plusvalore, che vede come protagonista Marx in persona, e I morti siete voi, che ci racconta le vicende della formazione partigiana Bandiera rossa intrecciate con quelle del movimento no global, la storia appena pubblicata da Cangianti si svolge a Roma nel 1982, ambientazione che lascia poco spazio per immaginare vie di fuga dalla palude del realismo capitalista, anche per un romanzo di genere fantastico. Si tratta di un periodo, come ce lo racconta lo stesso autore, caratterizzato dal disimpegno politico, dalle speranze infrante, dal tradimento di sé stessi e dei propri compagni, dalla diffusione dell’eroina, dalla mobilitazione collettiva schiacciata tra una repressione poliziesca sempre più pervasiva e una lotta armata sempre più autoreferenziale.

In questo contesto, come è possibile dare seguito all’esortazione contenuta nel titolo del libro? Il fatto stesso che questo incitamento alla ribellione sia ripreso dalla sigla di un cartone animato, il celebre Goldrake, non ci racconta forse di una stagione di smarrimento ideologico? Nel romanzo la colonna sonora del cartoon nipponico viene cantata a più riprese nei momenti di gioia e di lotta, come fosse una ballata di protesta. Ma si può combattere la cupa realtà a colpi di doppio maglio perforante, l’arma del robot giapponese preferita da Enrico, il liceale protagonista del libro? Ai lettori l’ardua sentenza. Da parte nostra anticipiamo che il nostro eroe, più che sui pugni spaziali, per sconfiggere il male fa affidamento su una sorta di guida magica: Il Signore degli anelli, il libro che si porta appresso come fosse una bussola per trovare la strada verso l’isola che non c’è. Un’isola in cui possa sentirsi finalmente a casa, lui che si sentiva fuori posto a Helsinki, dove aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita a causa del lavoro del padre, e che si sentiva ancora più a disagio a Roma in cui era stato appena catapultato come una sorta di marziano. Se avesse potuto scegliere, Enrico avrebbe vissuto nella Terra di Mezzo, preparandosi a distruggere il male in persona, Sauron. Peccato che non aveva ancora capito chi fosse effettivamente per lui l’Oscuro Signore di Mordor, cosa rappresentasse davvero nella sua vita.

Ognuno negli anni bui trova il suo talismano in quel poco che il mondo gli offre. Roberto, il nuovo compagno di banco di Enrico, sviluppa un suo senso di giustizia assistendo ai soprusi arbitrali che subisce la sua amata squadra di calcio, la Roma. Disimpegnato e scanzonato, considerato in famiglia il figlio idiota, trova a un certo punto un suo piccolo riscatto improvvisandosi agitatore di folle studentesche con un esilarante comizio in cui racconta che la Roma, nell’ultima partita di campionato, era riuscita a ribaltare a pochi minuti dal termine il risultato che la vedeva soccombere dimostrando così agli increduli uditori come nulla sia deciso fino alla fine. Stefania, compagna di classe ripetente di Enrico e Roberto, cerca ispirazione nel libro del partigiano Pietro Chiodi Banditi. Esile, solitaria, scontrosa, cresciuta nella nostalgia di quello che i compagni più grandi avevano fatto durante gli “anni belli”, è una delle poche persone al liceo XXIII che ha ancora un impegno militante, con esiti decisamente poco gratificanti. Lo studente universitario Maurizio, in un recente passato uno dei compagni “più tozzi” del XXIII ma oramai lontano dalla militanza, ha studiato Marx per cercare di capire perché tutto era cambiato così in fretta; per provare a comprendere per quale motivo pochi anni prima si sentiva immerso in un senso di potenza collettiva sconfinata e ora ha l’impressione di essersi andato a sfracellare contro un muro insieme a tutti i suoi compagni. Ma capire non lo aveva aiutato, per sua stessa ammissione.

La storia si svolge nel quartiere romano, al tempo periferico, dell’Appio Tuscolano, osservato con occhi da alieno di Enrico. Uno sguardo che ci consente di scoprire il ristretto milieu della sinistra rivoluzionari di quegli anni come fosse uno strano teatrino: uno spettacolo bizzarro in cui i trotskisti della Lega socialista rivoluzionaria litigano con i trotskisti della Lega comunista rivoluzionaria, canzonati dagli autonomi (“meglio di Godzilla contro King Kong”), prontamente contraccambiati dai militanti della Quarta Internazionale con una serie di beffardi epiteti, tra cui “trogloditi” è forse il più affettuoso. Nonostante i continui battibecchi, tutti gli i gruppuscoli politici residuati degli anni Settanta sono accomunati dalla stessa sorte: come dice Roberto, nella versione vox populi, sono dei “pesantoni” che “hanno più sigle che seguaci, parlano di cose incomprensibili e non se li fila più nessuno”. In questo mondo un po’ farsesco, si scontrano con veemenza, in una riunione della Commissione eroina al Comitato di quartiere Alberone, coloro che sostengono il “morfinaggio autogestito” per salvare la vita dei giovani proletari e chi li accusa di trasformarsi in “spacciatori legalizzati”.

Come nella migliore tradizione della commedia all’italiana, il tono prevalente della narrazione è quello tragicomico. Così, il piccolo mondo antico dei militanti dei primi anni Ottanta può essere raccontato in modo certamente simpatetico, ma senza nasconderne le piccole miserie. Con la benevola ironia che può essere riservata a tanti piccoli Don Chisciotte de noantri. Benevolenza dalla quale sembrano proprio esclusi il Pci e i suoi militanti, tra i quali spunta a un certo punto il rappresentante degli studenti del XXIII, perfetto esemplare di giovane burocrate fighetto, immediatamente apostrofato come “Ken, il fidanzato stalinista di Barbie”.

La narrazione prende avvio da una piccola vicenda, microcosmo rappresentativo di un macrocosmo in disfacimento: la lotta contro la decisione, considerata repressiva, del preside del XXIII di chiudere i cancelli della scuola durante le ore di lezione per impedire agli studenti di entrare e uscire a loro piacimento. Ma, all’improvviso, veniamo catapultati in un universo parallelo attraverso una sorta di stargate scoperto per caso dai nostri quattro studenti. Si tratta di uno strano mondo che sembra la copia di Roma sotto l’occupazione nazista, ma senza gli esseri umani. I quattro studenti dovranno attraversare questa città spettrale per cercare di tornare a casa, alle prese con creature dalle strane fattezze e dalle imperscrutabili intenzioni.

In questa realtà parallela Enrico, Roberto, Stefania e Maurizio trovano le tracce di precedenti visitatori provenienti dal loro mondo: il diario di un enigmatico partigiano di Bandiera Rossa, formazione resistente maggioritaria a Roma, ma osteggiata fortemente dal Partito comunista dell’epoca. Dal diario, che costituisce un secondo filone narrativo del romanzo, apprendiamo che alcuni membri di Bandiera Rossa avevano casualmente attraversato il varco verso il mondo parallelo per fuggire da un agguato dei nazisti. Tra questi resistenti c’era anche il nonno di Stefania che tutti pensavano fosse stato ucciso dai tedeschi, come Enrico era venuto a sapere quando era andato a casa della sua compagna di classe ma era riuscito a parlare soltanto con suo padre, triste e malato. Scopriamo così che c’è un filo rosso che unisce tre generazioni, ognuna a modo suo portatrice del gene della rivolta. Una memoria resistente si tramanda dal nonno, al padre e infine alla figlia. Una memoria che si interromperà con Stefania? Lo scopriremo solo leggendo. Sta di fatto che il nonno aveva mantenuto il suo impeto rivoluzionario cercando di instaurare il comunismo anche in questa dimensione parallela. Con quali esiti? Scopritelo da soli.

Un terzo filone narrativo del romanzo è ambientato ai nostri tempi nella Val di Susa. La valle che resiste con il movimento No Tav. Si tratta, da un punto di vista narrativo, di una quasi cornice essendo costituita dal primo e dal penultimo capitolo. In essa le vicende contemporanee si congiungono con quelle che hanno avuto luogo nel 1982, ma meglio non svelare come. Si può solo anticipare che non vedremo trionfare le orde barbarico-rivoluzionare dei valsusini contro l’impero estrattivista. Sarebbe davvero troppo edificante. Ma, con un colpo di scena immaginifico, o forse più propriamente fantastico, le cose non andranno proprio nel verso auspicato dalle forze repressive dello Stato, mobilitate in grande stile contro i No Tav … e non solo.

Nella struttura tripartita della narrazione, che prevede diversi livelli temporali con rimandi reciproci, aleggia lo spirito benigno di Valerio Evangelisti. Dal momento che apre il suo romanzo con una citazione in esergo di Black Flag, non ne fa certo un mistero Luca Cangianti, non a caso redattore della rivista on line Carmilla, fondata dallo stesso Evangelisti e da lui diretta fino alla sua scomparsa. Ma ci sono anche alcuni snodi del racconto che rimandano direttamente allo scrittore bolognese. A chiusura del penultimo capitolo, c’è una vera e propria citazione del brano in esergo: ci riferiamo al “metallo urlante” degli elicotteri della polizia che vengono colpiti, come perforati da un doppio maglio, mentre volteggiano simili ad avvoltoi sui militanti No Tav. Più sottile il possibile rimando nella scena in cui Stefania raccoglie la pistola che era appartenuta al nonno per sparare contro i “mostri”, forse un’eco della già menzionata scena finale di Black Flag in cui Sheryl ritrova la colt appartenuta nel secolo precedente allo stregone pistolero Pantera e si scaglia sparando contro i suoi nemici.

Infine, c’è il cupo personaggio che ci accompagna, con i suoi sensi di colpa, nelle vicende valsusine. Senza neanche sfiorare le stesse vette di perfidia, questo uomo ha una qualche somiglianza con il protagonista di Noi saremo tutto, il gangster italo-americano Eddie Florio che, nel finale del romanzo di Evangelisti, vede sfilare la manifestazione no global di Seattle nell’astiosa solitudine della sua vecchiaia, unica ricompensa di un’intera vita di doppiogiochismo.

Se è vero che molto del senso di una narrazione dipende dal suo finale, dobbiamo rilevare che il romanzo di Luca Cangianti ha una doppia conclusione. Nella prima, quella ambientata in Val di Susa, vediamo che il filo della memoria delle lotte non si è interrotto e che c’è ancora qualcuno che resiste. Chi è caduto in precedenti battaglie può risorgere a nuova vita, anche se in forme mutate o, visto quello che accade nel romanzo, sarebbe meglio parlare di forme mutanti. E poi le vicende dei nostri quattro studenti ci raccontano di come anche le ispirazioni più bizzarre possono dare impulso alla ribellione.

Ma c’è anche il secondo finale, quello più problematico che ci racconta, attraverso il diario del partigiano di Bandiera Rossa, come è andato a finire il tentativo di instaurare il comunismo nella dimensione parallela. Niente spoiler, per carità. Ma credo si possa dire, senza rovinare la sorpresa al lettore, che Luca Cangianti si è mantenuto fedele a una fondamentale idea di Evangelisti: per guidare la resistenza contro la colonizzazione dell’immaginario è necessaria una narrativa “che inquieti e non consoli”. Anche per questo all’inizio parlavo di un azzardo necessario a proposito di Distruggi il male. I nostri tempi sono davvero cupi. È nell’oscurità più oscura che dobbiamo immergerci prima di riuscire di nuovo a guardare il cielo e poter dire “Nella notte ci guidano le stelle”. E nel 1982 a Roma la notte era davvero scura. Insomma, anche la narrazione fantascientifica (o se preferite fantastica) si deve scontrare con la durezza del reale se vuole tener fede alle sue potenzialità di sobillare un immaginario alternativo. Altrimenti rischiamo di scivolare nell’universo narrativo del fantasy. Un universo che consola e non inquieta perché basta poco, un tocco di magia, per distruggere il male.

 

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