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Donne, la trappola del codice rosa

“Codice Rosa”, una trappola per i diritti e le libertà delle donne. Una proposta che disconosce le esperienze ed i saperi delle donne e del lavoro politico dei centri antiviolenza

di Daniela Amato

giornata contro la violenza sulle donne

Sin dalla presentazione dell’emendamento detto “Codice Rosa” (n. 1.131 – legge di Stabilità), prima firmataria Fabrizia Giuliani, numerose furono le voci di protesta che si levarono contro quest’iniziativa. Alcune associazioni, tra le quali Donne in Rete contro la violenza (D.i.R.e), Udi, Casa Internazionale delle donne, Telefono Rosa, Pari e dispare, Fondazione Pangea e altre che, insieme, lanciarono subito un appello per il suo ritiro immediato.

L’emendamento aveva la finalità di tutelare le persone appartenenti alle fasce della popolazione cosiddette “vulnerabili” e prevedeva, con l’introduzione dei codici rosa in tutti gli ospedali italiani, l’istituzione di un Gruppo coordinato tra le Procure della Repubblica, le Regioni e le Aziende sanitarie locali (ASL), i rappresentanti del mondo del volontariato e dell’associazionismo, presso la struttura di pronto soccorso per la presa in carico della vittima.

Un emendamento che metteva le donne in un “percorso obbligatorio e a senso unico”, infatti  “una donna che si rivolge al Pronto Soccorso sarebbe automaticamente costretta a un tracciato rigido, senza poter decidere autonomamente come agire per uscire dalla violenza” e, inoltre, “si troverebbe di fronte a un magistrato o a un rappresentante della polizia giudiziaria prima ancora di poter parlare con una operatrice di un Centro Antiviolenza che la ascolti e la sostenga nelle sue libere decisioni.”

Una proposta questa alquanto pericolosa poiché “mette in pericolo l’incolumità fisica e psichica delle donne che subiscono violenza maschile e rischia di compromettere l’emersione  del fenomeno”. In questo senso, una donna malmenata avrebbe paura di rivolgersi al Pronto Soccorso per farsi curare, sapendo che la sua richiesta di aiuto e di prestazioni sanitarie si tradurrebbe automaticamente in una azione di polizia, e in seguito giudiziaria, senza garantire l’incolumità fisica della donna stessa dopo la visita al Pronto Soccorso. Tutto questo accadrebbe in un contesto in cui sono proprio i mariti, o i compagni, che esercitano la violenza ad accompagnare spesso le vittime.

In sostanza ci troviamo dinanzi ad una proposta che disconosce le esperienze ed i saperi delle donne e del lavoro politico dei centri antiviolenza, che in più di vent’anni di attività hanno prodotto, sul territorio nazionale, saperi e studi sul tema della violenza alle donne, non solo relegandoli ai margini dell’accoglienza alle donne, ma inserendo le donne vittime di violenza nelle fasce della popolazione “vulnerabile”, insieme a tutte le vittime di comportamenti aggressivi,  non si considera di conseguenza un necessario approccio di genere al fenomeno. La violenza contro le donne viene considerata quindi un problema sanitario e di ordine pubblico e non un problema strutturale, sociale e culturale.

Inoltre questa proposta, introducendo meccanismi rigidi e percorsi obbligatori, considera le donne come soggetti “deboli” da “tutelare” e non soggetti di diritti. Non è dunque la volontà della donna ad aprire percorsi di uscita dalla violenza, quanto invece le procedure delegate a “gruppi multidisciplinari”, tutto al contrario della consolidata pratica di accoglienza dei centri antiviolenza che mette al centro invece la consapevolezza, le risorse e la libertà delle donne.

L’emendamento Giuliani (451 bis e 451 ter alla legge di Stabilità ) che istituisce “un percorso di protezione denominato percorso tutela vittime di violenza”, con alcune riformulazioni nel tentativo di placare le proteste dei centri antiviolenza e delle associazioni impegnate sul tema dei diritti delle donne, è stato approvato in Commissione Bilancio della Camera il 15 dicembre scorso. Nonostante alcune modifiche la sostanza non cambia e ieri 73 centri antiviolenza, rappresentati dall’Associazione D.i.Re, Telefono Rosa che gestisce il numero pubblico di emergenza 1522 per la violenza contro le donne, l’Unione Donne Italiane, la Libera Università delle Donne di Milano, Ferite a Morte, la Fondazione Pangea, Be Free, Pari o Dispare, Uil, LeNove Onlus, Giuristi Democratici, hanno indetto una conferenza stampa alla Sala Cristallo dell’Hotel Nazionale a Montecitorio per denunciarne la pericolosità, la superficialità e l’illegittimità.

Le associazioni denunciano che il “percorso tutela vittime di violenza” rappresenta un attacco alla libertà delle donne, alla cultura, all’informazione e alla consapevolezza che le associazioni femminili e femministe hanno costruito in questo paese. Questo tipo di iter “assimila la violenza maschile, che colpisce una donna su tre e spesso con esiti fatali, a qualunque altra violenza su soggetti per giunta definiti “deboli”: anziani, bambini, portatori di handicap e omosessuali”, perché “prevede una procedura che, tra ambiguità e contraddizioni, mette al centro le istituzioni e il sistema di interventi invece della consapevolezza e libertà di scelta della donna” e rappresenta “solo l’ultimo grave atto contro le politiche di contrasto alla violenza, che si aggiunge alla mancata erogazione del denaro pubblico dovuto per legge ai centri antiviolenza”.

Dopo la denuncia però, con grande caparbietà, è arrivata anche una promessa: “non ci fermeremo e combatteremo finché questo pericolo non sarà sventato.”

 

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