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Charlie Hebdo, no al copione della psicologia del terrore

Luoghi sensibili sorvegliati, città militarizzate, aumento del potere di polizia, leggi speciali, tortura, invocazione della pena di morte, guerra, paura del diverso, odio. E’ possibile sottrarsi a tutto ciò?

di Marialuisa Menegatto e Adriano Zamperini*

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L’attentato al giornale satirico Charlie Hebdo ci ha fatto sbattere con violenza contro un’alterità, i terroristi, che si credeva a distanza di sicurezza. Un attacco al cuore dell’Europa, nei confronti di persone armate solo delle loro idee, delle loro matite, impegnate a far ridere il mondo. Uno shock sociale che ha gettato tutti nello smarrimento. E quando un attacco terroristico si concretizza nella sua brutalità, segnala incontrovertibili evidenze: il fallimento della protezione dello Stato, la pochezza delle politiche internazionali, con il conseguente crollo di fiducia verso le istituzioni; il pericolo che un nemico (invisibile) possa essere qui accanto a noi, in ogni dove, mascherato nel perfetto e ineccepibile vicino di casa; la fragilità della condizione umana. Tutti elementi che gettano le persone in un profondo senso di insicurezza.

Data questa precarietà, dopo l’evento, molti sono i linguaggi usati per descrivere e cercare di capire come sia potuto accadere, sempre con la coda dell’occhio fissa sugli aggiornamenti continui dei media, per tentare disperatamente di ricostruire la dinamica dell’accaduto ed essere rassicurati dall’arresto dei killer. Quasi un rito per restaurare il controllo sulla realtà, a uso di milioni di spettatori in attesa di ricevere notizie rassicuranti.

Manipolare la paura

Il modello psicologico adottato dal terrorismo è la disseminazione ad ampio raggio di emozioni negative. Attraverso spietati attentati o decapitazioni a freddo, il terrorismo impugna l’emozione-arma della paura affinché questi tremendi massacri abbiano un forte impatto emotivo sulla società, tale da disgregare il senso di sicurezza e incrinare i legami sociali. E l’eredità psicologica di simili eventi si rivela devastante, poiché provocare paura, come avvenuto in queste ore a Parigi, significa coltivare angoscia e smarrimento fra le persone, renderle ipervigilanti circa le sorti cui sono esposte con i propri cari.

La paura è sempre paura di qualcuno verso qualcosa. È un’emozione che i singoli individui, gruppi sociali e intere comunità o nazioni, sperimentano al cospetto di circostanze vissute come pericolose. E sebbene la paura possa essere anche tutelante perché svolge un ruolo importante ai fini della sopravvivenza, manipolata ad arte da chi semina terrore può innescare quale risposta comportamentale una fuga parossistica. Fuga che può essere prettamente di natura fisica, quando porta la persona a evitare la frequentazione di situazioni percepite come potenzialmente pericolose, i cosiddetti “luoghi sensibili” quali aeroporti, stazioni del treno, piazze, monumenti, eccetera. Ma anche una fuga che presenta un movimento psicologico di mortificazione dell’azione verso l’aperto del mondo: chiusura in se stessi, solitudine, isolamento, ritiro sociale. Una presa di distanza che può sfociare in rigida immobilità.

Terrorista = immigrato = odio

Da un punto di vista sociale, una delle più diffuse strategie per far fronte a ciò che fa paura è allontanare da sé l’elemento perturbante, scaricandolo su un bersaglio prontamente disponibile. È il noto fenomeno del capro espiatorio che permette di liberarsi da ciò che è negativo trasferendolo a un altro individuo o gruppo sociale. Nel clima attuale, tutto ciò entra a gamba tesa nel tema dell’immigrazione. Una rappresentazione sociale egemone e radicata nel senso comune sostiene che se il terrorista è un islamico e l’islamico è percepito come un immigrato, allora tutti gli immigrati sono (potenzialmente) terroristi (per inciso, nel caso di Parigi i terroristi sono francesi e quindi europei). L’immigrato diventa il nemico pubblico numero uno, il principale imputato di tutti i crimini, colui che minaccia la nostra esistenza, rafforzando la sensazione che le città siano sempre più insicure e esposte a pericoli. Il male da temere ora ha un’identità sociale stigmatizzata: l’immigrato islamico. L’odio, l’emozione prevalente che caratterizza il legame antagonista amico-nemico, trova la strada aperta. Risulteranno così giustificati e giustificabili eventuali comportamenti ostili nei confronto dei pericolosi nemici. Il megafono della strumentalità partitica farà ovviamente la sua parte, dipingendo a tinte fosche il fenomeno migratorio. Sarà così facile cadere nel rischio di assimilare e legare tra loro avvenimenti privi di qualsiasi connessione. Il destino comune sarà l’erosione degli assetti societari alla base della convivenza umana. Trasformando i cittadini in sirene d’allarme, pronti a vedere in ogni comportamento dotato di una certa ambiguità un sicuro pericolo.

Domanda e offerta di controllo sociale

A fronte di atti di terrorismo, prontamente si assisterà a una rapida estensione del controllo sociale. Maggiore sorveglianza di luoghi pubblici e costruzione di città militarizzate, aumento del potere delle forze dell’ordine e diffusione di leggi speciali, legittimazione e giustificazione dell’uso della tortura durante gli interrogatori, l’invocazione della pena di morte, pianificazione e attuazione di interventi militari preventivi nei “Paesi canaglia”. Una situazione generale che nell’immediato genera nei cittadini l’idea che finalmente si fa sul serio, finalmente si affronta concretamente il pericolo del terrorismo.

Cambiare copione

Quanto esposto sin qui è il classico copione scritto dalla psicologia del terrore, un copione che troppe volte viene recitato anche da coloro che si scagliano contro il terrorismo. Si sa, ma oggi come non mai serve ribadirlo: un Paese fortezza è una prigione che imprigiona i corpi e le menti di coloro che si vorrebbe proteggere. Un’angoscia indifferenziata non può essere la regola emozionale che ci permette di vivere in una comunità. Non possiamo avere paura della nostra paura. In questo momento serve togliere importanza agli scudi identitari, diventa essenziale saper distinguere e differenziare, prendere le distanze da discorsi omologanti, e soprattutto continuare a stare nell’aperto dell’incontro umano, come i nostri concittadini francesi che spontaneamente si sono riversati in piazza la sera dell’attentato, innalzando lo striscione: “Non spaventati”.

 

Marialuisa Menegatto, Università di Verona, Adriano Zamperini, Università di Padova

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