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Cambio climatico e clima di guerra

Naomi Klein riflette su ciò che è in gioco al 21° Vertice sul cambio climatico di Parigi, alla luce del divieto assoluto di ogni manifestazione e protesta

di Naomi Klein*

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Chi sono quelli la cui sicurezza va protetta a qualsiasi costo? Chi sono quelli la cui sicurezza è casualmente sacrificata, nonostante ci siano modi per agire meglio?
Sono queste le domande al centro della crisi climatica e le risposte sono la ragione per cui i vertici sul cambio climatico finiscono sempre tra lacrime e recriminazioni.

La decisione del governo francese di proibire le proteste, la manifestazioni e qualsiasi “attività all’aria aperta” durante il 21mo vertice sul cambio climatico che si terrà a Parigi al 30 novembre all’11 dicembre, è per diversi aspetti inquietante. Ciò che più mi preoccupa ha a che vedere con la forma in cui riflette la disuguaglianza fondamentale della stessa crisi climatica e la questione chiave della sicurezza e a chi, in ultima istanza, conviene questo mondo di disuguaglianza.

C’è chi dice che tutto va bene per combattere il terrorismo. Ma un vertice sul cambio climatico non è come una riunione del G8 o dell’Organizzazione mondiale del commercio, dove si incontrano i potenti e dove i senza-potere cercano di rovinare la festa. Le azioni della “società civile”parallela non sono una aggiunta né una serie di distrazioni per l’avvenimento principale. Sono parte integrante del processo, ragione per cui il governo francese non avrebbe mai dovuto permettersi di decidere quale parte del vertice cancellare e quale mantenere.

Anzi, dopo i terribili attentati del 13 novembre sarebbe stato necessario determinare se esisteva la volontà e la capacità di ospitare i vertice nel suo insieme, con la piena partecipazione della società civile, compresa quella che si sarebbe espressa per le strade.

Se ciò non poteva essere, doveva fare marcia indietro e chiedere ad altro paese di impegnarsi. Invece il governo di Hollande ha preso una serie di decisioni che riflettono un insieme di valori e priorità molto particolari riguardo chi riceverà una completa protezione dalla sicurezza dello Stato. Certo, ai leader mondiali, durante gli incontri di calcio e i mercatini di Natale; non certo alle manifestazioni sul cambio climatico e alle proteste secondo cui i negoziati, con l’attuale livello di emissioni, mettono in pericolo le vite e il modo di vita di milioni se non migliaia di milioni di persone.

E chi sa dove finirà tutto questo? C’è da aspettarsi che l’ONU revochi arbitrariamente le credenziali della metà dei partecipanti rappresentanti della società civile, o a chiunque potrebbe causare problemi all’interno di un vertice murato come una fortezza? Non mi sorprenderebbe in assoluto.

Vale la pena pensare a cosa significa decidere di cancellare manifestazioni e proteste, sia in termini reali che simbolici. Il cambiamento climatico rappresenta una crisi morale perché ogni volta che i governi delle nazioni opulenti si mostrano incapaci di agire, il messaggio che si manda è che noi, il nord globale, stiamo mettendo il nostro comfort immediato e la nostra sicurezza economica davanti alla sofferenza e alla sopravvivenza dei popoli più poveri e vulnerabili della Terra. La decisione di proibire gli spazi più importanti, quegli spazi dove si potevano ascoltare le voci della gente che ha patito le ripercussioni del cambio del clima, è una drammatica espressione di questo abuso di potere profondamente contrario all’etica: ancora una volta un opulento paese occidentale mette la sicurezza delle élite prima degli interessi di quanti lottano per la sopravvivenza. Ancora una volta il messaggio è che la nostra sicurezza non è negoziabile, la vostra sta lì, per chi la volesse.

Una riflessione ulteriore. Scrivo queste parole da Stoccolma, dove ho partecipato ad una serie di atti pubblici in relazione con la questione del cambio del clima. Quando sono arrivata la stampa si abbuffava con un tweet inviato dalla ministra svedese all’ambiente Asa Romson. Poco dopo la diffusione delle notizie sugli attentati di Parigi, la ministra twittava la sua indignazione e tristezza per la perdita di vite. Dopo ha aggiunto che, secondo lei, era un brutto notizia anche per i vertice sul clima, una riflessione che ha raggiunto ognuno e ognuna vincolata a movimenti ambientalisti. Altri però l’hanno crocifissa per la sua insensibilità: come le è venuto in mente di pensare al cambiamento climatico nel momento in cui si era verificata una simile carneficina?

La reazione è risultata rivelatrice dando di fatto la nozione secondo cui il cambio climatico è una questione minore, una causa senza vittime vere, persino frivola. Soprattutto quando questioni serie, come la guerra e il terrorismo, prendono io centro della scena. Mi ha fatto pensare a qualcosa che scrisse Rebecca Solnit non molto tempo fa: “Il cambio climatico è violenza”.

Lo è. Parte di questa violenza risulta tremendamente lenta: livelli del mare che si alzano e cancellano gradualmente paesi interi, siccità che uccide a migliaia. Parte di questa violenza risulta spaventosamente rapida: tormente e uragani con nomi come Katrina o Ivan che rubano migliaia di vite in un solo evento. Quando governi e grandi imprese non sono capaci di agire per prevenire un riscaldamento catastrofico, ciò costituisce un atto di violenza. Una violenza così grande, così globale e che si infrange simultaneamente contro tante temporalità (antiche culture, vite presenti, potenziale futuro) che non c’è tuttavia una parola capace di contenere la sua mostruosità. E ricorrere ad atti di violenza, per zittire le voci di coloro che sono i più vulnerabili alla violenza del cambio climatico, significa ancora più violenza.

Per spiegare perché le previste partite di calcio sono state giocate come da programma, il segretario di Stato francese allo sport ha affermato: “La vita deve continuare”. Ebbene sì, è per questo che mi sono unita al movimento di giustizia climatica. Perché quando i governi e le grande imprese falliscono al momento di agire in una forma che rifletta il valore di tutta la vita sulla Terra, bisogna protestare.

*Fonte: The Guardian, 20 novembre 2015 . Traduzione di Marina Zenobio

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