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Prima di andare in paradiso i crumiri si pentivano

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In scena a Genova La classe operaia va in paradiso, versione teatrale del film di Elio Petri. Lino Guanciale nei panni che furono di Gian Maria Volontè

da Genova, Claudio Marradi

C’era una volta in Italia. E tutto quel che c’era scorre in un time laps, accelerato alla rovescia,  sullo schermo dietro il palco del Teatro delle Corte di Genova. Dalle immagini di naufragi dei barconi nel Mediterraneo, passando per il G8 del 2001, Berlusconi e poi giù giù, la motonave Vlora delle sbarco  degli albanesi, Craxi,  Pertini, il caso Moro, il 1977…  e sempre più giù in un contatore che parte azzerando il (quasi ormai)  primo ventennio del  terzo millennio e si ferma solo una cinquantina d’anni prima, sui titoli di coda di “La classe operaia va in paradiso”, il film di Elio Petri di cui l’omonimo spettacolo teatrale diretto da Claudio Longhi è un libero adattamento.    Con Lino Guanciale  – Premio Ubu come migliore attore – nel ruolo che fu di Gian Maria Volontè e che, nella drammaturgia dello scrittore Paolo Di Paolo,  conferisce corpo alla storia di Lulù Massa, irriducibile operaio stakanovista che scopre la coscienza di classe dopo avere perso un dito in un incidente.   Lo spettacolo prodotto da Emilia Romagna Teatro è costruito attorno alla sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro, che diventano a loro volta personaggi, interpretati rispettivamente da Nicola Bortolotti e Michele Dell’Utri. Al loro fianco vivono tutti i personaggi del film: come l’Adalgisa (Donatella Allegro), il cronometrista (Simone Francia), Lidia (Diana Manea), lo Studente (Eugenio Papalia), Militina (nel film era Salvo Randone, qui è invece interpretato da una donna, Franca Penone), mentre Simone Tangolo e Filippo Zattini danno vita agli intermezzi musicali, con canzoni dolci e amare dell’Italia alla fine del boom. E tutti entrano in scena trasportati dal nastro della catena di montaggio, come quando ancora le cose ci raggiungevano una alla volta e non tutte assieme da ogni lato contemporaneamente come oggi, in una scrittura che si intreccia alle vicende che hanno accompagnato la genesi e la controversa ricezione del film. Che quando nel 1971 arrivò nelle sale suscitò le critiche di industriali, sindacalisti, studenti e dei critici cinematografici più impegnati dell’epoca, nonostante la Palma d’Oro a Cannes e il Nastro d’argento alla protagonista femminile, Mariangela Melato.

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Muovendosi fuori e dentro il palco, fuori e dentro la pellicola,  fuori e dentro il testo, lo spettacolo ricostruisce, tra spot televisivi in bianco e nero  che ancora si chiamavano réclame e copertine di fotoromanzi, il contesto di quegli anni dai quali sembra separarci ormai un secolo intero. Il Novecento. Perché è vero che la fabbrica metalmeccanica è scomparsa – assieme a quella classe operaia di cui Lulù  Massa, con quel cognome che sembra esprimere il suo stesso  destino,  era un eroe involontario – dall’orizzonte dei luoghi che abitiamo. Ma solo perché è migrata dall’altra parte del mondo,  in cerca di forza lavoro più docile e a buon mercato. Eppure espandendosi all’infinito, lasciando dietro di sé  tempi e luoghi di nuovi stakanovismi, dai capannoni della logistica  di Amazon alla produzione diffusa di materiali di comunicazione e marketing. Vive ora tra le pieghe delle retoriche dell’autovalorizzazione di una forza lavoro sempre più precaria, ma che non ha più orari di lavoro solo perché tutta la vita è ormai lavoro, nelle chat tra colleghi accese h24. E tutta la vita è ormai prodotto, nel cicaleccio continuo dei social media tradotto in biga data. In una fabbrica grande come il mondo.

 

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