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La sinistra ha perso la bussola dell’etica

E non si ritroverà con vuota verbosità a difesa di chi sta di sopra, ma ascoltando i popoli, accettando le decisioni collettive di chi sta di sotto

di Raùl Zibechi*

Gli assassinii della brasiliana Marielle Franco (avvenuto nel marzo 2018) e dell’honduregna Berta Caceres ( a marzo del 2016) sono stati crimini politici, tesi a colpire i movimenti, i partiti di sinistra e gli intellettuali progressisti. Erano entrambe donne della base, e la loro pelle era color della terra, erano femministe in lotta contro patriarcato e capitalismo. Con molte ragioni per le loro uccisioni è sotto accusa l’alleanza tra imprese multinazionali, governi e milizie paramilitari che, nei vari paesi, agiscono in forme distinte ma sempre a favore dell’1 per cento più potente.

La vita del attivista nahuatl Samir Flores (avvenuta in Messico lo scorso 20 febbraio), aveva molte somiglianze con quelle di Berta e Marielle. Contadino della base più popolare anche Flores lottava con il capitalismo neoliberista sulla sua terra (Amilcingo, Morelos) che si manifesta con mega progetti infrastrutturali, come in Houduras dove Berta lottava contro un mega progetto idroelettrico per lo “sviluppo” del suo paese. Tre persone che hanno vissuto e sono morte in piedi, difendendo la dignità dei loro popoli, assassinate perché diventate un ostacolo all’accumulazione del capitale.

Essendo i contesti di questi tre omicidi tanto simili, c’è da capire perché accademici e professionisti che si definiscono progressisti fanno delle differenze e chiedono di definire non politico l’assassinio di Samir Flores perché, secondo loro, si tratterebbe di un mero problema di sicurezza pubblica di cui è competente la polizia. Ma sono tre crimini di Stato, come quelli degli studendi di Ayotzinapa, per i quali abbiamo sempre sempre puntato il dito contro i governi di turno.

L’unica cosa che giustificherebbe un trattamento diverso è che in Brasile e in Honduras questi sono governi di destra, accusati di complicità con i crimini, mentre in Messico il discorso progressista dell’attuale governo (non le loro azioni) lo esonererebbe da ogni responsabilità. A mio avviso, questa è una discussione meschina e povera.
È evidente che discorsi e parole non possono cambiare i fatti e, soprattutto, non ha senso applicare standard diversi a situazioni simili. Se Ayotzinapa era sotto la responsabilità del governo di Peña Nieto, se Marielle e Berta erano sotto la responsabilità dei rispettivi governi, non c’è modo di evitare la responsabilità dell’omicidio di Samir.

Percorrendo questa strada si arriva solo a un pericoloso punto di non ritorno, al limite dell’aberrazione.

La maggior scempiaggine delle sinistre latinoamericane oggi (per ora) si chiama Nicaragua. Daniel Ortega non perde occasione per menzionare il suo presunto anti-imperialismo mentre il suo governo, secondo un recente rapporto di Amnesty International, continua a creare un’atmosfera di terrore nel paese, dove ogni tentativo di esercitare la libertà di espressione e il diritto all’assemblea pacifica è punito con la repressione.

La comandante sandinista Monica Baltodano a più riprese ha denunciato le penose condizioni dei detenuti in Nicaragua, ammalati perché costretti a bere acqua non potabile e a causa delle pessime condizioni sanitarie. Secondo Baltodano non ci sono mai stati così tanti detenuti nel paese costretti a condizioni di vita peggiori persino dell’epoca di Somoza, e Baltodano ha conosciuto le prigioni del vecchio dittatore.

In Nicaragua i detenuti subiscono torture tipiche delle dittature, eppure la sinistra continua ad appoggiare il regime neosomozista di Ortega, così come anche alcuni intellettuali.

In questo periodo incerto di decadenza dell’impero e delle sinistre, le parole non valgono nulla o, parafrasando il poeta, certe voci valgono meno, molto meno del piscio dei cani. E’ diventata la norma che le parole mascherino realtà che si vuole nascondere perché è scomodo accettarle.

Il progressismo è, in primo luogo, una costruzione discorsiva, solo discorsiva perché non può produrre cambiamenti strutturali.

La chiave di qualsiasi vera trasformazione non è altro che il potere popolare, le decisioni emanate dal basso non le politiche di chi sta sopra, non importa quanto rivoluzionarie possano definirsi. Questo punto è così decisivo per potrebbe persino essere definito rivoluzionario, non per la presa del potere ma affinché le organizzazioni di quelli di sotto possano decidere.

In secondo luogo il centro del conflitto del progressismo è contro i popoli e non contro il capitale e le destre, come sostengono gli intellettuali progressisti. Questo è un punto nodale ed è quello che consente di stabilire le differenze tra il progressismo (adattato al rapporto di forze ereditato e limitato alla gestione del presente) e altri processi che, più male che bene, pretendono di superare lo stato attuale delle cose.

I nemici attaccati dal progressismo sono il popolo mapuche (a cui è stata applicata la legge antiterrorismo), i movimento del giugno 2003 in Brasile, i popoli originari in generale e ora quelli del Messico in particolare, tra le situazioni più evidenti.

La bussola che si è persa è quella etica. E non si recupero con discorsi ma ascoltando i popoli, accettando le loro decisioni collettive che, mai in cinque secoli, sono riusciti a confinare in contenitori istituzionali. Il resto è solo vuota verbosità che pretende di proteggere le persone di sopra ignorando i popoli.

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*Raul Zibechi (nato a Montevideo nel 1952) è uno scrittore, intellettuale e attivista uruguyano. Dedica in particolare il suo lavoro ai movimento sociali dell’America Latina.
Fonte: La Jornada 7 giugno 2019 – traduzione di Marina Zenobio

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