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Hong Kong, domino cinese

Hong Kong e la sua crisi di piazza, spontanea quanto un teatrino d’ombre cinesi, può innescare ben altre crisi sulle piazze finanziarie del mercato globale e nel confronto tra Oriente e Occidente. Atteso per il 5 agosto lo sciopero generale, il redde rationem con Pechino che sta a guardare

È dal 2014 che va avanti così. Coi cappelli e gli ombrelli colorati, per ripararsi dai lacrimogeni più che dalla pioggia o dal sole, rade bandiere inglesi. Cinque anni di proteste a Hong Kong, le più cruente negli ultimi tempi, con l’occupazione del parlamento e gli scontri al New Town Plaza, nei Nuovi territori della terraferma. Prima per il suffragio universale del governo centrale eletto dal ristretto gruppo dirigente, formalmente indipendente da Pechino. Poi per la legge sull’estradizione presentata dall’esecutivo, che vede per i criminali – siano finanzieri o gangster – la possibilità d’essere estradati e giudicati a Macao, Taiwan e nella Cina continentale.

A centinaia di migliaia in piazza, a milioni secondo gli organizzatori, fino all’occupazione del parlamento locale. Non è bastato lo stop all’estradizione, con tanto di scuse da parte della governatrice Carrie Lam per le «mancanze del governo e l’afflizione di molti». Scemate nei numeri, le manifestazioni degli ultimi tempi si sono incrudelite, con feriti e arresti a dozzine. E per il 5 agosto è atteso lo sciopero generale, il redde rationem con Pechino che per ora sta a guardare, limitandosi a dare un colpo al cerchio e l’altro alla botte, come d’uopo in casa di mandarini.

La partita tra i manifestanti e la Cina – guai a chiamarla madrepatria, da queste parti – va oltre la querelle con l’amministrazione o le beghe legislative. Né è questione di diritti umani violati, come nella Cina continentale, secondo gli osservatori di tali diritti. Nata su input di docenti universitari anglicizzati, a cui s’è dato un seguito studentesco di massa, le proteste hanno avuto il classico sviluppo delle rivoluzioni colorate sbocciate nel mondo per portare il verbo globalista & liberista in casa di regimi avversi e contrari. Spontanee quanto un teatrino d’ombre cinesi, ma non per questo men vere.

Una piana di grattacieli in stile Feng Shui, un porto a perdita d’occhio dove faticherebbe a cadere il classico vago di sale. Piazza dello strapotere finanziario mondiale e viuzze dove s’accatastano pub e bordelli, cascami dell’Occidente ricco e sfrenato. Dalle balconate del Victoria peak potete cogliere con uno sguardo il senso delle cose, le contraddizioni del mondo. Sfiorare con mano, quasi, la partita a domino tra un mondo non più bipolare e un mondo non ancora multipolare, nel vecchio porto profumato all’estuario del fiume delle perle, restituito nel ‘97 dalla Gran Bretagna alla Cina. A cui l’aveva sottratto con la famigerata guerra per la commercializzazione dell’oppio alla metà dell’Ottocento. All’apice dello strapotere imperiale britannico ed europeo, oggi sfranto ma non domo.

Una gara di domino in uno stato città di pochi milioni d’abitanti, megacentro commerciale con oltre 340 miliardi di dollari di pil – a paragone l’Italia non ne fa un paio, con oltre sessanta milioni d’abitanti – sterminata conurbazione a un tiro di schioppo dalla Cina di cui è parte ma al tempo stesso distante anni luce. Hong Kong e la sua crisi di piazza può innescare ben altre crisi sulle piazze finanziarie del mercato globale, e gli analisti già avvertono che l’Italia è in prima fila nella nuova recessione che s’apparecchia. Punta di diamante dell’Occidente in Oriente, e punto di non ritorno della nazionalizzazione delle vecchie colonie, come Macao e in un futuro più o meno prossimo Taiwan, secondo il principio: un paese, due sistemi, messo in crisi dai dimostranti e dalle mene angloamericane. La frontiera, e la partita, tra l’Occidente che più non è padrone del mondo e l’Oriente che non lo è ancora, passa e si gioca qui. Sulle teste dei manifestanti.

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