A Gaza stiamo perdendo la capacità di parlare

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La mente umana, di fronte al genocidio, erige barricate invisibili. Una di queste è la capacità di esprimere ad alta voce il nostro trauma [Taqwa Ahmed Al-Wawi]

Le strade di Gaza non risuonano più dei suoni familiari della vita quotidiana. Dal 7 ottobre 2023 risuonano i rumori della distruzione, seguiti da un silenzio così profondo da sembrare quasi fisico, un’assenza che soffoca le parole prima ancora che possano formarsi. Intrappolati tra le mura fatiscenti di Gaza, viviamo in una tempesta in cui il linguaggio stesso si è disgregato. In poche parole, stiamo perdendo la nostra stessa capacità di parlare.

Non lo dico in senso metaforico. È tutto fin troppo reale.

Personalmente, mi sembra di avere una nebbia costante dentro di me. Spesso so cosa voglio dire, ma le parole non mi vengono. I miei pensieri si confondono e, anche quando cerco di parlare, la mia voce vacilla o mi si spezza in gola. A volte anche il mio corpo reagisce: mi si stringe il petto, mi tremano le mani o mi ritrovo paralizzata, incapace di andare avanti. Non si tratta solo di dolore o paura, è la sensazione di essere muta dentro. Mi sento come se il mio mondo interiore fosse avvolto dal silenzio e anche solo sostenere una semplice conversazione o esprimere i miei bisogni diventa estenuante. Ogni tentativo di parlare ad alta voce mi sembra di rompere una barriera invisibile e la frustrazione di essere intrappolata nella mia mente è opprimente.

Quello che affrontiamo è più di una semplice perdita di parole; è il collasso del sistema simbolico che il linguaggio rappresenta, ovvero il quadro condiviso attraverso il quale diamo significato alle nostre emozioni ed esperienze. Questo collasso approfondisce il silenzio, rendendo la comunicazione non solo impossibile, ma inconcepibile.

Intorpidimento emotivo: la psiche in ritirata

La mente umana, di fronte a un dolore incessante, erige barricate invisibili. La difficoltà che incontriamo nell’esprimere il nostro dolore è una risposta riconosciuta a un trauma estremo. L’esposizione prolungata e intensa alla violenza, alla distruzione e alla perdita, come quella vissuta a Gaza, porta spesso a ciò che gli psicologi definiscono “ottundimento emotivo” o “appiattimento psichico”. Si tratta di un tentativo di proteggere la mente da un dolore e un terrore insopportabili.

L’“ottundimento emotivo” non si limita ad attenuare i sentimenti, ma altera radicalmente il panorama interiore, facendo perdere significato alle parole familiari man mano che le esperienze che rappresentano diventano inaccessibili.

Studi neurologici sui sopravvissuti a traumi dimostrano che lo stress prolungato sopprime i centri del linguaggio del cervello, rendendo estremamente difficile l’espressione verbale. Lo sperimentiamo quotidianamente: un’incapacità pervasiva di trovare le parole giuste, come se il nostro vocabolario interno fosse stato ridotto. Questo intorpidimento va oltre l’espressione del dolore e della paura; offusca la percezione stessa, rendendo il mondo silenzioso e il nostro paesaggio interiore difficile da navigare.

La perdita della nostra capacità di parlare non è solo un fenomeno cognitivo o filosofico; lo shock continuo cambia il ritmo del cuore, rende il respiro irregolare, rallenta i nostri passi e si imprime sui nostri volti. La fame indebolisce la voce, l’insonnia confonde i pensieri e il freddo fa tremare le labbra prima ancora che possano formare le parole. Non restiamo in silenzio perché non riusciamo a trovare ciò che vogliamo dire, ma perché la nostra mente e il nostro corpo sono troppo esausti per sostenere il linguaggio.

Il trauma incessante rimodella il significato delle parole, trasformandole in gusci vuoti di angoscia. “Casa” – un tempo luogo di sicurezza, conforto e famiglia – è diventata un cumulo di pietre e polvere dove giacciono sepolti i ricordi.

“Amico” – un tempo fonte di compagnia e sostegno – è stato ridotto a un nome sussurrato da labbra tremanti, a un ricordo sbiadito o a una domanda agghiacciante: sono ancora vivi?

La “speranza”, un tempo aspettativa di un futuro più luminoso, è ora una fiamma fragile che lotta contro il vento ululante della disperazione. La ‘sicurezza’ si è trasformata in un’illusione, un’ombra fugace infranta dalle bombe che cadono o dalle porte chiuse che non riescono a tenere fuori il pericolo. Quello che un tempo chiamavamo “normale” si è dissolto in un passato perduto, sostituito da un ritmo infinito di genocidi.

Una volta pensavo che il motivo per cui nessuna parola potesse davvero catturare la nostra sofferenza fosse perché cercavo di esprimerla in inglese, una lingua insufficiente per descrivere la profondità del nostro dolore. Ma anche la nostra lingua araba, ricca di termini ricchi e sfumati, non riesce a trasmettere l’immensità della nostra angoscia. Prendiamo, ad esempio, parole come qahr, ghussa e faj‘a: termini carichi di significato, che indicano oppressione, un nodo alla gola e un dolore improvviso. Eppure nemmeno questi possono esprimere appieno il dolore crudo e travolgente che proviamo. Il dolore profondo supera ogni linguaggio, sfuggendo all’espressione e sfuggendo alla comprensione di qualsiasi vocabolario.

Questo lessico frammentato riflette una realtà frammentata. Il linguaggio, un tempo archivio vivente dell’esperienza umana, ora fatica a tenere il passo con una distruzione così vasta da cancellare le fondamenta stesse del significato. Le parole stesse sono state erose, spingendoci verso uno stato di nichilismo in cui la vita sembra privata del suo valore intrinseco. Diventano un “linguaggio dell’indicibile”, un vuoto dove dovrebbe esserci comunicazione, che la dice lunga sulla profondità della nostra disperazione.

I bambini siedono immobili, con lo sguardo vacuo, mentre le bombe cadono intorno a loro, le loro voci soffocate dallo shock. Le madri stringono le mani vuote, il loro dolore troppo grande per essere espresso a voce alta. I padri vagano tra le rovine, le loro parole intrappolate in una morsa di sconforto e dolore. I nostri cervelli, sopraffatti dalla portata della devastazione, rallentano il loro ritmo, trasformando il linguaggio in una candela tremolante che lotta contro una notte senza fine.

Lo stato costante di iperconsapevolezza, i disturbi del sonno e i ricordi intrusivi inerenti alle zone di genocidio prosciugano le risorse cognitive necessarie per un’articolazione eloquente. Ciò si traduce in quello che è noto come “lockdown psicologico” dei centri del linguaggio, rendendoci impossibile trasmettere in modo coerente l’enormità della nostra sofferenza.

In tali momenti, si verifica una profonda rottura tra l’essere stesso e la capacità del linguaggio di rappresentarlo.

Il linguaggio, nella sua essenza, è uno strumento che utilizziamo per attribuire un significato alle nostre esperienze, per costruire narrazioni e per connetterci con gli altri. Quando gli elementi fondamentali della nostra esistenza vengono sistematicamente cancellati – la nostra casa polverizzata, i nostri legami sociali recisi dalla perdita, il nostro senso di identità frammentato: le strutture linguistiche su cui un tempo facevamo affidamento diventano insufficienti, persino obsolete. Le parole che un tempo avevano un peso profondo ora si sgretolano nel vuoto, incapaci di trasmettere la cruda realtà.

Il filosofo Alan Tormey descrive le emozioni come una realtà intenzionale, qualcosa di reale e comunicabile. Il trauma frattura questa intenzionalità. Le nostre emozioni perdono la loro chiarezza, vagando come frammenti scheggiati che non possono essere ricomposti.

L’abisso silenzioso

La rottura tra esperienza e linguaggio ci fa precipitare in un abisso dove le parole falliscono e regna il silenzio. Questa quiete non nasce dalla pace, ma è imposta dall’angoscia. È un silenzio così pesante che opprime il petto, una quiete che urla.

Questo crollo della comunicazione ci isola ulteriormente. Viviamo dietro un muro di indicibile tormento che pochi al di fuori possono penetrare. Le nostre voci sembrano deboli echeggiare, perse nella vastità di un mondo che non vuole o non può ascoltare.

Il genocidio non è solo una questione personale, ma collettiva. Come possiamo spiegare la paura infinita, la minaccia costante, il dolore pervasivo, quando le parole stesse sembrano inadeguate? Ci sentiamo come se parlassimo una lingua diversa, nata dal trauma e dalla perdita, che gli altri non riescono a comprendere.

Molti pensatori hanno sostenuto che il dolore è uno stato esistenziale troppo vasto per essere espresso a parole; la sua acutezza, la sua natura onnicomprensiva ma intima, resistono ai confini netti del linguaggio. Lo sentiamo ogni giorno: il nostro dolore non è solo difficile da esprimere, è per sua stessa natura indicibile. E così ci rivolgiamo ad altri canali: il silenzio, il linguaggio del corpo, i legami non detti tra i sopravvissuti, non come forme di espressione inferiori, ma come gli unici mezzi in grado di contenere ciò che non può essere detto.

Ci affidiamo a segnali sottili e a una comprensione condivisa. Uno sguardo, un tocco, un gesto possono trasmettere più di quanto possano fare le parole. A volte è il modo in cui ci teniamo compagnia in silenzio, sapendo che l’altra persona prova lo stesso dolore. Altre volte sono i ritmi della vita quotidiana, le routine e i piccoli gesti di cura che comunicano solidarietà. Parliamo attraverso la presenza piuttosto che con le parole, attraverso le azioni piuttosto che con le dichiarazioni. Anche senza parole, esiste un linguaggio tra i sopravvissuti che racchiude ciò che non può essere articolato, una conversazione silenziosa che esiste negli sguardi condivisi, nelle risposte del corpo e nella comprensione reciproca.

Le parole che riusciamo a pronunciare sembrano immagini sbiadite di colori che nessuno ricorda, tentativi disperati di trattenere ciò che non può essere trattenuto. Non solo non riescono a comunicare, ma tradiscono il loro stesso scopo, lasciandoci in una doppia prigionia: quella dell’agonia e quella di non avere voce per esprimerla.

Parlare senza parole

Sui muri in rovina fioriscono murales dai colori vivaci che sfidano le macerie grigie. I disegni dei bambini, rozzi ma vivaci, parlano di sogni che rifiutano di morire. Le canzoni risorgono dalle ceneri in incontri silenziosi, fili di memoria e resistenza intrecciati in melodie. Le mani si stringono in silenzio, trattenendo il dolore e la speranza in un abbraccio condiviso.

Questi linguaggi non verbali – l’arte, i rituali, il silenzio condiviso – diventano ancore di salvezza. Racchiudono ciò che le parole non riescono a esprimere. Tessono un fragile filo che collega le ferite invisibili interiori al mondo esterno.

Testimoniare: scrivere come forma di resistenza

Circondati da un silenzio carico di perdita e dolore, molti di noi, me compreso, si rivolgono alla scrittura nel disperato tentativo di colmare il divario tra la nostra esperienza interiore e il mondo esterno. Eppure, anche questo atto rivela i profondi limiti del linguaggio. Le mie parole, e quelle degli altri, spesso sembrano troppo piccole per contenere l’immensità del dolore, il peso di assistere e sperimentare lo smantellamento sistematico di un popolo.

Persistiamo nell’illusione del linguaggio, sapendo che non potrà mai racchiudere completamente la nostra verità. Nonostante tutto ciò, è anche un atto di profonda resistenza alla morsa del trauma, un tentativo di rivendicare un po’ di umanità e garantire che la nostra storia, per quanto difficile da articolare, non rimanga inascoltata. Scriviamo non per fingere che il dolore possa essere contenuto, ma per tenere la porta leggermente socchiusa tra il mondo in cui viviamo e il mondo al di là dell’assedio.

Un grido collettivo: imparare ad ascoltare

Il silenzio di Gaza è una chiamata. Ascoltare questo silenzio significa riconoscere un’umanità condivisa, messa a dura prova dalla sofferenza.

Il mondo esterno spesso si limita a frammenti – statistiche, titoli, immagini fugaci – ma non coglie la profondità che si cela dietro. Il silenzio ci sfida ad ascoltare in modo diverso: a prestare attenzione a ciò che non viene detto e a comprendere i limiti del linguaggio. Solo allora la solidarietà potrà andare oltre le parole, diventare una risposta autentica al dolore umano.

Non voglio che chi vive fuori da Gaza si limiti a leggere le notizie e poi continui la propria vita come se nulla fosse successo. Piuttosto, fermatevi un attimo a riflettere. Un bambino è stato ucciso. Andate oltre il titolo del giornale. Pensate a ciò che non viene detto: i sogni di questo bambino, i suoi amici, la sua famiglia, la vita che immaginava, le cose che sperava di realizzare. Ogni persona ha una storia, una vita e delle aspirazioni, non è solo una statistica o una notizia fugace. La vera solidarietà nasce dal rispetto di quella realtà umana, dal prendersi un momento per riconoscere la loro esistenza e i loro sogni.

Il silenzio parla quando le parole falliscono

Anche se le parole vacillano, lo spirito umano resiste. Sotto il silenzio si nasconde un battito cardiaco feroce e ostinato che rifiuta di essere messo a tacere. Portiamo il peso dei ricordi e delle perdite, ma confidiamo nel disegno divino che guida il futuro. Ci aggrappiamo alla speranza che un giorno “casa” significherà di nuovo sicurezza e calore. Che ‘amico’ tornerà come un sorriso, non come un fantasma. Che “speranza” risplenderà luminosa e indissolubile.

Il nostro silenzio racchiude ricordi, perdite e speranze, e parla chiaro a chi è disposto ad ascoltare. Ci ricorda che l’espressione trascende la parola e che la resistenza assume molte forme, compreso il profondo linguaggio del silenzio.

Dice: siamo ancora qui. Resistiamo. Ascoltate, non solo le nostre parole, ma anche ciò che sta tra di esse. In quel silenzio risiede la verità di Gaza.

 è una scrittrice, poetessa 
e giornalista palestinese di 19 anni 
che studia letteratura inglese all'Università Islamica di Gaza.

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