Quando il settore della difesa diventa centrale per favorire l’accumulo di capitale, l’economia diventa dipendente dalla guerra [Romaric Godin]
La distruzione di Gaza e del suo popolo non è solo un progetto politico. È anche un progetto economico, come confermato dalla proposta di “piano di pace” di Donald Trump e Benyamin Netanyahu, che riprende l’idea di una “Dubai del Mediterraneo”.
Le radici economiche dell’attuale tragedia sono spesso occultate dietro discorsi ideologici o nelle analisi di economisti o istituzioni internazionali come l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), che si congratulano per la “resilienza” dell’economia israeliana o vedono come problema principale i difetti del sistema educativo. Tuttavia, se l’economia non è l’unica né la principale causa degli eventi attuali, il suo ruolo non può essere trascurato.
Per comprenderlo, occorre tenere presente che l’economia israeliana è una delle più militarizzate al mondo. Con questo termine si intendono diverse realtà che, tuttavia, conferiscono all’esercito un ruolo economico centrale.
In proporzione al prodotto interno lordo (PIL), già prima della guerra iniziata nel 2023 Israele era uno dei paesi con la spesa militare più elevata. Secondo i dati della Banca mondiale, Israele destinava l’equivalente del 4,5% del suo PIL del 2022 alle spese militari. Una cifra più che doppia rispetto a quella della Francia, ma eccezionalmente bassa per Israele: tra il 2010 e il 2021, la percentuale oscillava infatti tra il 5 e il 6% del PIL.
Sebbene, secondo questo indicatore, Israele sia stato superato nel 2022 dalla Russia, a causa dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, rimane uno dei paesi che spendono di più in materia militare. Nel 2022, l’Iran ha speso il 2,1% del suo PIL per l’esercito e gli Stati Uniti il 3,4%. Lo Stato ebraico era allora il dodicesimo paese al mondo in termini di spesa militare rapportata al suo reddito nazionale.
La centralità dell’esercito
Naturalmente, questo livello di spesa può essere giustificato dalla situazione di sicurezza del paese. Ma ciò che conta, in questo caso, è la centralità di questa spesa nel modello economico israeliano.
L’analisi potrebbe sembrare controintuitiva. Al momento della guerra del Kippur, nell’ottobre 1973, la spesa militare raggiungeva il 35% del PIL israeliano. Ne è derivata una crisi inflazionistica che ha portato, nel 1985, a un “piano di stabilizzazione” che ha fatto entrare Israele nell’era delle politiche neoliberiste. Da allora, la percentuale della spesa militare rispetto al PIL ha continuato a diminuire.
Tuttavia, l’economia israeliana non si è liberata dalla sua dipendenza dalla spesa militare. In un libro pubblicato nel 2018, The Israeli Path to Neoliberalism (“Il percorso israeliano verso il liberalismo”, Routledge), Arie Krampf ricorda che alla fine degli anni ’80 l’esercito è diventato «un gruppo di interesse potente non solo per le sue dimensioni, ma anche per la sua posizione strategica e la sua importanza percepita dai politici e dall’opinione pubblica». Questa posizione non è cambiata nella sostanza, ma nella forma.
A metà degli anni ’80, lo Stato non è più in grado di sostenere da solo il peso di questa centralità dell’esercito. Ha perso l’equilibrio tra «il peso della sicurezza e il mantenimento di un’economia forte», riassume Arie Krampf. L’esercito assorbe quindi troppe risorse. Il problema principale delle spese militari in senso stretto è la loro natura profondamente improduttiva: il loro “consumo” è finale e non contribuisce, di per sé, a migliorare lo strumento produttivo generale del Paese. In altre parole, l’esercito tende a costare molto e a rendere poco, il che favorisce l’inflazione nel resto dell’economia.
Il nodo militare-tecnologico
Il finanziamento delle spese militari deve quindi dipendere da altri settori. Lo Stato decide quindi di ridurre il finanziamento diretto dell’esercito, senza tuttavia abbandonare la militarizzazione dell’economia. Per Israele si tratta di rendere finalmente produttiva la sua industria della difesa, diventata una delle più importanti al mondo.
A tal fine, vengono favorite le sinergie tra l’esercito e il settore privato. L’obiettivo è quello di sviluppare settori esportatori forti che consentano, in cambio, di finanziare le spese militari senza inflazione.
Negli anni ’90 si crea quindi un legame tra il settore della difesa e quello della tecnologia. La scelta di questa specializzazione non è casuale: «È stata la tecnologia militare a fungere da precursore diretto dell’economia della conoscenza israeliana, perché è il primo settore in cui sono state sviluppate su larga scala tecnologie innovative in Israele“, riassume David Rosenberg in un libro sulla storia dell’economia tecnologica israeliana, Israel’s Technology Economy (”L’economia tecnologica in Israele”, Palgrave Macmillan, 2018).
Logicamente, quindi, le riforme neoliberiste favoriscono l’uso civile, da parte del settore privato, delle tecnologie militari, ma anche lo sviluppo di tecnologie civili che saranno poi riutilizzate in campo militare. La priorità della difesa dello Stato è quindi fondamentale. Oltre alle consuete esenzioni fiscali, le aziende beneficiano di diverse garanzie pubbliche implicite: le tecnologie sono testate e collaudate dall’esercito israeliano, che rappresenta un mercato captive (che non ha competitor e, quindi si distingue da tutti gli altri per un elevato prezzo dei prodotti). Tutto ciò riduce il rischio legato allo sviluppo di nuove tecnologie e costituisce il cuore della “start-up nation” israeliana.
Naturalmente, una tale specializzazione non avrebbe potuto svilupparsi senza lo stretto legame che Israele intrattiene con gli Stati Uniti. Gli aiuti diretti degli Stati Uniti a Israele, che non sono subordinati all’acquisto di materiale statunitense, hanno permesso di mantenere un alto livello di ordini da parte dell’esercito, in particolare nel campo delle tecnologie avanzate. Senza contare, naturalmente, che il settore tecnologico dello Stato ebraico si è pienamente integrato nell’ecosistema della Silicon Valley, che gli ha offerto sbocchi e finanziamenti.
Non sorprende quindi che il settore tecnologico israeliano si sia fortemente sviluppato negli anno 1990 e 2000, nei settori molto legati alla tecnologia militare: telecomunicazioni, sicurezza, informatica. Molte di queste tecnologie hanno origine in applicazioni militari, il che conferisce alle start-up israeliane e ai loro dirigenti e militari provenienti dall’esercito un vantaggio competitivo sulla concorrenza internazionale”, riassume David Rosenberg. Cita come esempio il caso delle tecnologie legate alle auto a guida autonoma, dove molte aziende israeliane occupano una posizione decisiva grazie ai trasferimenti di uso militare, nonostante Israele non abbia mai avuto un’industria automobilistica.
Nelle statistiche, ciò ha portato a una riduzione del ruolo economico diretto dell’esercito. Ma in realtà, l’economia israeliana è rimasta altamente militarizzata. Ciò che è successo è che lo Stato è riuscito a trasformare la priorità data alla difesa in una fonte di crescita e non più in un semplice costo per il bilancio dello Stato. «Il ruolo fondamentale delle Forze di difesa israeliane [il nome ufficiale dell’esercito – ndr] nella società israeliana è solo parzialmente reso dai numeri», sottolinea David Rosenberg.
Il «neoliberismo falco»
L’autore insiste, al di là dei trasferimenti incrociati di tecnologie, su quella che definisce «socializzazione militare», che caratterizza in modo molto particolare il «capitale intellettuale utilizzato nell’industria high-tech». Un dato lo illustra bene: nel 2013, l’89% dei dipendenti israeliani del settore erano veterani dell’esercito. Se si considera che questi lavori sono di gran lunga i meglio retribuiti del Paese, si capisce meglio la profondità del nodo tecno-militare nell’economia israeliana: l’esercito fornisce tecnologia e manodopera a un settore che finanzia largamente la difesa e i suoi veterani.
Con questo nuovo modello, l’economia israeliana è diventata, almeno in apparenza, una delle più dinamiche del mondo occidentale. Ma questo fenomeno ha portato alla creazione di un’economia duale. Parallelamente a un settore tecnologico molto produttivo e legato all’esercito, che rappresenta il 15% del PIL, il resto dell’economia è caratterizzato da una produttività molto bassa. Il livello complessivo di produttività del Paese è quindi inferiore del 6,7% alla media dei Paesi dell’OCSE.
Essendo poco produttivi, i settori tradizionali non possono offrire salari così elevati come quelli del settore tecnologico. Tra il 2012 e il 2022, questi ultimi sono aumentati di oltre il 50%, contro meno del 30% per il resto del settore privato. Di fatto, Israele è uno dei Paesi più diseguali dell’OCSE, subito dopo gli Stati Uniti. Ciò ha numerose conseguenze.
In primo luogo, per essere redditizia, l’economia interna israeliana deve concentrarsi sulla rendita e sul monopolio. Si tratta di un’economia molto concentrata, uno dei cui principali motori è la bolla immobiliare.
In secondo luogo, i salari reali al di fuori del settore high-tech sono sotto pressione: i lavoratori e le lavoratrici subiscono il doppio effetto dei monopoli e dell’aumento dei prezzi spinto dagli alti salari del settore tecnologico. Per combattere il malcontento che una tale situazione non può mancare di creare, la risposta è naturalmente quella del nazionalismo. Una retorica identitaria e securitaria giustifica così i sacrifici ma anche la centralità dell’esercito nella società.
Il mantenimento di una logica di guerra
Questa particolare economia politica, che Arie Krampf definisce «neoliberismo falco» («hawkish neoliberalism»), rimane quindi dominata dalla militarizzazione della società. Tuttavia, anche se Israele sostiene di essere riuscito a rendere produttivo il settore della difesa, un tale modello di sviluppo ha conseguenze concrete. Se l’esercito rimane centrale nel modello economico del Paese, deve essere “utile” e poter essere attivo per svolgere il suo ruolo di “banco di prova” per le tecnologie.
È in questo contesto che va compresa l’accelerazione della colonizzazione della Cisgiordania, che permette sia di alimentare il nazionalismo, sia di offrire ad alcuni una via d’uscita dalla società ineguale, sia di mantenere l’esercito in stato di allerta. Una soluzione di pace comporterebbe infatti gravi problemi per l’economia politica israeliana così come si è sviluppata dalla metà degli anni ’90. Senza un esercito in attività, la dinamica tecnologica faticherebbe a mantenersi, mentre il resto dell’economia israeliana è troppo poco produttivo e quindi troppo poco competitivo.
Non solo Israele rimane vincolato da spese militari relativamente elevate, che portano alla costituzione di scorte che devono essere costantemente rinnovate per rendere redditizia la produzione militare, ma la parte produttiva della militarizzazione rimane altamente dipendente dall’attività militare.
Pertanto, quando nel 2023 si è verificato il massacro del 7 ottobre, la risposta è stata logicamente sproporzionata. Il conflitto volto all’annientamento di Gaza e di parte della sua popolazione ha permesso di rilanciare l’attività militare con la speranza, appena velata, che ciò potesse sostenere la crescita del settore tecnologico.
A luglio, l’agenzia Reuters ha sottolineato come molti riservisti tornassero dal fronte di Gaza con nuove conoscenze e le mettessero a disposizione delle aziende che attiravano investitori internazionali. Avi Hasson, del think tank Startup Nation Central, ha affermato che il fenomeno gli ricorda la “rivoluzione tecnologica di vent’anni fa”, che aveva portato alla nascita degli smartphone.
Altri non hanno nascosto che la guerra avrebbe favorito le esportazioni del settore della difesa israeliano che, nel 2024, ha raggiunto la cifra record di 14,8 miliardi di dollari, metà dei quali destinati all’Europa. Si tratta di un elemento chiave, dato che gli Stati europei stanno intraprendendo una politica di riarmo. «Alla fine, quando una parte acquista, ciò che vuole è il miglior prodotto possibile», riassume a Reuters Yair Kulas, un funzionario del ministero della Difesa israeliano. E cosa c’è di meglio di una guerra per dimostrare che le proprie armi sono «le migliori»?
Il massacro di Gaza è stato quindi accompagnato da un importante dispiegamento tecnologico, in particolare con l’uso dell’intelligenza artificiale. Allo stesso modo, la distruzione dei cercapersone di Hezbollah nel settembre 2024 ha anche avuto la funzione di sostenere la capacità di innovazione e il progresso tecnologico dell’esercito israeliano.
La guerra non è uno sfortunato incidente di percorso per l’economia israeliana, ma un mezzo per favorire il modello economico del Paese. Del resto, in questo caso, il settore tecnologico è solo uno degli aspetti del problema. La distruzione di Gaza mira anche a sostenere altri settori, in particolare quello dell’edilizia, che era in crisi dalla pandemia di Covid, con i progetti faraonici proposti da Tel Aviv e Washington.
Quella che gli economisti chiamano la «resilienza» dell’economia israeliana non è altro che il risultato dell’integrazione della guerra nel suo modo di funzionare. Pertanto, la crescita del 2023 e del 2024 si basa sulla spesa militare, finanziata in gran parte dalle esportazioni di servizi tecnologici.
Il caso israeliano deve allertare l’opinione pubblica occidentale. Naturalmente, la situazione di questo Stato è particolare e spiega in gran parte la centralità dell’esercito nel suo modello economico. E naturalmente questa questione economica non esaurisce le altre cause del genocidio in corso. Ma la situazione del Paese ricorda anche che non si può innocentemente costruire un’“economia di guerra”.
Coloro che si entusiasmano per il riarmo dell’Europa come mezzo per rilanciare la propria economia dovrebbero guardare più da vicino. Quando il settore della difesa diventa un mezzo centrale, direttamente o indirettamente, per favorire l’accumulo di capitale, l’economia diventa dipendente dalla guerra, che diventa indispensabile per promuovere l’esportazione di armi, rinnovare le scorte esistenti e stimolare l’“innovazione”.


