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Lavoro nero, Bellanova mente o ha mentito

La sottosegretaria al lavoro si smentisce in tv e nega di aver firmato una lettera di referenze per il suo ex addetto stampa che le ha fatto causa dopo il benservito

di Checchino Antonini

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Al tempo del jobs act, fare causa a un padrone che ti tiene al nero, rischia di essere definito estorsione. E magari quel padrone è il Pd.

L’avevamo chiamata la storia della sottosegretaria e dell’uomo da quattro euro. Quattro euro al giorno per 39 mesi di lavoro. Ora lui è senza lavoro e i suoi datori di lavoro siedono in Parlamento e nel governo. Una di loro, ex sindacalista, è sottosegretaria al Lavoro in prima fila, in queste ore, nell’operazione di guerra al mondo del lavoro che passa sotto il nome di jobs act dopo essere stata relatrice della legge Fornero, altra pietra tombale targata Pd sui diritti dei lavoratori. Teresa Bellanova.

Snobbata dai compiacenti giornali locali, questa storia – scoperta da Popoff il 2 settembre scorso – è stata ripresa ieri da un programma di La7, la Gabbia, e ora svetta in apertura del Fattoquotidiano che titola senza esitare: «Governo, Bellanova e la bugia sulla firma: “Non è mia”. Ma aveva detto il contrario». A nulla sono servite le minacce del legale nominato dai due esponenti del Pd, Bellanova e Savatore Capone. Ripetutamente contattata da Popoff, la sottosegretaria non ha voluto concedere una intervista chiarificatrice: «Lo sa quanti impegni ha la sottosegretaria?», ci siamo sentiti dire dallo staff del ministero e da quello che risponde alla linea diretta della parlamentare.

Il colpo di scena televisivo consiste nel fatto che la sottosegretaria, dopo aver ammesso in sede di (mancata) conciliazione, di aver scritto una lettera di ottime referenze per lo stesso Pasquali, nell’intervista trasmessa ha negato che quella possa essere la sua firma. Qual’è la bugia, quella davanti alla commissione o quella davanti alle telecamere?

Ecco il passaggio tv: “Questa è la sua firma? È la sua firma o no?”. “Io non lo so, se lei è in grado di dimostrare che quella è la mia firma, faccia”. “Sottosegretario, è la sua firma o no?”. “Non è la mia firma. No. Non è la mia firma”. La terza versione fornita dalla Bellanova nel giro di poche settimane. Finora ha preso posizione in favore del lavoratore solo l’Opposizione in Cgil, “Il sindacato è un’altra cosa”.

Popoff ha scoperchiato per primo questa brutta storia di lavoro nero nel cuore del Pd, il partito di maggioranza relativa, grazie alla denuncia di Maurizio Pascali, 45 anni, 27 da precario, e Maria Lucia Rollo, la sua avvocata. Pascali dal 2010 per 39 mesi lavora per il Coordinamento provinciale di Lecce del Pd occupandosi, in maniera piena ed esclusiva, della redazione di comunicati stampa, interventi d’aula, materiale elettorale per le consultazioni politiche ed amministrative e per tutte le primarie di partito e di coalizione. Curerà la comunicazione interna del partito e presterà la sua attività in favore dei circoli del PD presenti sul territorio. Curerà e gestirà, inoltre, i rapporti con gli organi di stampa, le agenzie e le testate giornalistiche locali, regionali e nazionali, tanto per conto del partito, quanto, più specificatamente, per conto di Teresa Bellanova (attualmente Sottosegretario al lavoro del governo Renzi) e Salvatore Capone (all’epoca Segretario provinciale del PD di Lecce). Tutto questo senza aver formalizzato alcun contratto, ma con una fintissima Partita Iva in aperta violazione delle leggi. Perfino della tremenda Legge Fornero.

Teresa Bellanova, brindisina, classe ’58, si vanta di aver iniziato a fare sindacato a 15 anni contro il caporalato, all’epoca era bracciante, ma un caporale, a Rosarno, a Nardò o in altre piazze dell’oro rosso, paga i suoi schiavi anche 25 euro al giorno. L’altro deputato viene dal mondo cattolico. Quando nel Pd salentino cambiano gli equilibri salta il lavoro di Maurizio, l’uomo da quattro euro.

Ma Bellanova e Capone, su carta intestata di Montecitorio, si sperticano in lodi per l’ex collaboratore: «In qualità di deputata ho potuto avvalermi della sua preziosa collaborazione che si è dimostrata fondamentale per l’esercizio delle mie funzioni di rappresentante istituzionale, grazie a una capillare diffusione della mia attività politica sia sulla stampa locale che sulle più importanti testate giornalistiche nazionali», scriveva Bellanova (così ha ammesso in sede di conciliazione) il 21 settembre dell’anno scorso piuttosto soddisfatta di aver potuto «verificare… le sue competenze professionali, le spiccate abilità nell’organizzazione del lavoro e nel coordinamento del lavoro di equipe». Puntualità, professionalità, fiducia, stima e bla, bla, bla. Di seguito l’allegato della dichiarazione. E non è da meno il Capone che riferisce della «sua dedizione al lavoro» e dell’«alta professionalità» mentre descrive le mansioni svolte dall’uomo da quattro euro. Per gli amatori di questo genere di letteratura rimandiamo al pdf della dichiarazione.

Ma il giorno della tentata conciliazione, i due parlamentari, lungi dall’avanzare una proposta conciliativa, hanno presentato delle memorie da toni sprezzanti, da cui abbiamo appreso che Maurizio avrebbe “collaborato, a titolo meramente autonomo, esclusivamente con il Coordinamento provinciale”; che il Sottosegretario Bellanova, “utilizzando i locali della sede della federazione del PD, aveva occasione di incontrarvi il Dr. Pascali e di interfacciarsi con esso su qualche vicenda che riguardava l’attività politica del PD” e che “può essere capitato, come per gli altri dirigenti, di aver discusso (ovvero condiviso) con il Dr. Pascali un comunicato stampa”. Resta da capire perché parlamentari, amministratori e dirigenti del PD avrebbero “discusso (ovvero condiviso)” linea politica e comunicati stampa, quotidianamente per 39 mesi, con una persona – Maurizio – che non solo di quel partito non è mai stato dirigente, ma neanche iscritto. Ma la cosa più grave è che in quelle memorie “conciliative” entrambi gli onorevoli affermano che le dichiarazioni a loro firma – e che attestano inequivocabilmente l’esistenza del rapporto di lavoro – sono state ottenute “con l’inganno ed il raggiro” (affermazioni, queste ultime, rispetto alle quali Maurizio sta valutando l’opportunità di presentare una denuncia penale) e concludono diffidando Maurizio dal proseguire nella sua azione».

La conciliazione si è conclusa con un mancato accordo e, un mese dopo, Maurizio ha ricevuto una raccomandata dalla persona che all’inizio del rapporto lavorativo gli era stata indicata dal Pd come colui che si sarebbe occupato degli adempimenti contabili, fiscali e contributivi derivanti dalla sua posizione. Si tratta di un commercialista che all’epoca era membro della direzione provinciale del Pd e che nel 2011 diventerà anche tesoriere provinciale. Quella raccomandata, dopo quasi quattro anni di totale silenzio, era una parcella cumulativa dei quattro anni fiscali di 15.411,39 euro, a fronte di un reddito imponibile di circa 27 mila euro.

Per concludere, a Maria Lucia Rollo basta una calcolatrice: Maurizio ha lavorato tre anni e tre mesi, accumulando un reddito lordo di 27 mila euro; su questi ha versato contributi alla gestione separata dell’INPS per un totale che supera i 7 mila euro; se si detrae la parcella del “commercialista” restano circa 5 mila euro, e ancora al lordo delle tasse. Poco più di 4 euro lordi al giorno.

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