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A tu per tu con Zerocalcare, fumettista e “voce generazionale”

Intervista a ZeroCalcare: “Non mi sento di rappresentare nessuno, ma come tutti ho passato molto tempo arrancando tra un lavoro e l’altro”

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TORINO – Che i panni di “voce generazionale” gli vadano stretti non è un mistero per nessuno. E a stargli accanto si fa pure piuttosto in fretta a immaginare il perché. Introverso, “timido come una suora orsolina, tanto che nelle mie storie non si parla mai di sesso”, Michele Rech, fumettista romano noto al grande pubblico con lo pseudonimo di Zerocalcare, non pare il tipo umano che coltiva la pretesa di farsi interprete del sentire comune. “Fino al mese scorso – confessava ieri pomeriggio al pubblico torinese – avevo ancora seri problemi a dire agli altri quale fosse il mio lavoro: se me lo chiedevano, rispondevo che davo ripetizioni di francese, facevo traduzioni e poi a volte aggiungevo che facevo anche fumetti”.

Eppure – con 200 mila copie vendute e un esercito di trentenni che segue il suo blog con dedizione da culto postmoderno – Rech ha dovuto prendere atto che in effetti c’è un’intera generazione che dalle sue storie si sente rappresentata. A sdoganarlo al grande pubblico – dopo un’educazione sentimentale ricevuta tra centri sociali, illustrazioni per dischi punk e lividi collezionati al G8 di Genova – fu Marco “Makkox” D’Ambrosio, oggi tra gli autori di “Gazebo”. Il quale, oltre a produrre il suo esordio, “La profezia dell’armadillo”, pare lo abbia praticamente obbligato ad aprire l’ormai celebre blog: “Io non ero per niente convinto, – ricorda Rech – ma Marco voleva che mi facessi conoscere; e alla fine fu lui a comprare il dominio internet e a mettere online le prime storie”. Di lì al fenomeno di costume il passo è breve; e oggi, quattro libri dopo, mentre la “Profezia” si appresta a diventare in un film con la regia di Valerio Mastrandrea, Rech ha firmato per Internazionale un reportage a fumetti dall’assedio dell’enclave curdo-siriana di Kobane. Un inserto di 40 pagine, andato esaurito in tutto il paese nell’arco di una mattinata, caso più unico che raro nel panorama editoriale italiano, tanto da costringere la rivista a una seconda edizione consecutiva.

Negli ultimi giorni, Zerocalcare è stato a Torino, per incontrare il pubblico in due affollati eventi organizzati dal Salone del Libro: ne abbiamo approfittato per rivolgergli qualche domanda, a partire dai paragoni con maestri del graphic journalism come Guy Delisle o Joe Sacco, fioccati al suo rientro dal Kurdistan siriano.
“Direi che si tratta di un accostamento eccessivo – chiarisce – se non altro perché la mia intenzione non è mai stata quella di fare un reportage. A Kobane ci sono andato per una campagna di solidarietà con i centri sociali romani, e solo in seconda battuta è nata l’idea di farne un fumetto. Per me si trattava di una questione sentimentale più che lavorativa: la mia militanza politica è iniziata quindici anni fa, con l’arrivo in Italia del leader curdo Abdullah Ocalan; fu allora, di fronte agli uffici romani della Turskish Airlines, che vidi i primi scontri tra manifestanti e polizia. In quei giorni, a Roma c’erano attivisti curdi da tutto il mondo e con i centri sociali ci occupammo della loro accoglienza. Da allora sono rimasto legato alla loro causa, oltre che alla comunità curda di Roma”.

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Non sembri avere grossi problemi a esporre al mondo le tue contraddizioni: arrivi dai centri sociali e dalla militanza, ma allo stesso tempo ammetti di essere un consumatore di prodotti di massa, come le merendine, la playstation o la televisione. Fatti i dovuti distinguo, sono le medesime contraddizioni di molti tuoi coetanei, gli stessi che comprano i tuoi libri…
È probabile che sia così, ma io non ho mai avuto la pretesa di rappresentare nessuno. Nei miei fumetti racconto una piccolissima parte della mia vita, che per l’appunto è quella più buffa, incoerente, contraddittoria. Loro probabilmente si sono riconosciuti in questo, perché sono aspetti che ci uniscono un po’ tutti. Ma per fortuna c’è dell’altro, nella mia vita come nelle loro.

In questo modo però ti ritrovi a rappresentare anche persone molto distanti da te, per idee e formazione ideologica. Come vivi questa cosa?
Dipende molto dai casi. Premesso che non sono uno che campa di dogmi, ci sono comunque dei paletti nella mia vita. Di per sé, il fatto che in molti si riconoscano in quello che scrivo mi fa anche piacere. Il problema inizia quando alcuni dei miei lettori si sentono in diritto di venirmi a chiedere conto del fatto che io disegni la locandina per la manifestazione contro Salvini o che abbia criticato quel genere di ideologia. Spiace dirlo, ma ho dovuto constatare che le idee di qualcuno dei miei lettori mi fanno orrore: nel momento in cui un leghista o uno che se la prende con gli immigrati si sente rappresentato da me, inizio a pensare di aver sbagliato qualcosa io…

Pensando invece a qualcosa che unisce i trentenni italiani di oggi, qual è la prima che ti viene in mente?
Direi che è la stagnazione, purtroppo. Personalmente, le cose mi vanno molto bene al momento; ma se guardo ai miei amici, o a me stesso fino a qualche tempo fa, la costante è che quasi tutti siamo impegnati a restare a galla. Prima di riuscire a mantenermi con i fumetti, io stesso mi sono trovato a cambiare una media di un lavoro ogni sei mesi: ho lavorato in aeroporto, in uno studio d’animazione, ho fatto ripetizioni e traduzioni dal francese. Questo stile di vita ti porta a orbitare a lungo attorno alla famiglia d’origine, non senti mai di aver raggiunto un’identità pienamente formata. E quando ce la fai a uscirne arrivi quasi a sentirti in colpa.

Il fatto di sfondare come fumettista lo avevi messo nel conto delle probabilità?
In tutta onestà, no. A un certo punto ho semplicemente cercato di muovermi con maggiore costanza in questo campo, in modo da incrementare le mie entrate e non dover accettare qualsiasi lavoro mi capitasse sottomano. Il fatto è che in Italia, come per qualsiasi altra attività che ruoti attorno a un processo creativo, fare fumetti è considerato un hobby più che un mestiere. Io stesso vivo con la consapevolezza che tutto questo potrebbe finire da un giorno all’altro: per dire, fino a pochissimo tempo fa ho continuato a dare ripetizioni al ragazzino che compare spesso nei miei fumetti. Il mio primo libro risale a quattro anni fa, ma solo di recente ho iniziato a vivere di questo.

A questo proposito a una ragazza, che gli chiedeva quali fossero state le tappe che lo hanno portato a diventare un uomo, Rech ha risposto che a cambiare la sua percezione di sé “è stata l’idea di non dover più dipendere economicamente da qualcuno: sembra una cosa scontata ma purtroppo non lo è più. E alla fine è questo il motivo per cui oggi c’è questa percezione di un’adolescenza a tempo indeterminato, che può arrivare fino ai 35 anni. Finché non sei in grado di badare a te stesso è molto difficile percepirsi come persone complete: io sono uscito di casa otto anni fa, ma fino a poco tempo fa ho continuato a campare arrancando. E pure oggi non è che abbia grandi certezze sul futuro”. Alla fine, c’è da capirli i lettori: come si fa a non voler bene a uno così? (ams)

© Copyright Redattore Sociale

 

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