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HomecultureRagazzini e detenute sul palco. E dietro le sbarre

Ragazzini e detenute sul palco. E dietro le sbarre

L’esperienza di teatro-carcere a Genova che coinvolge detenute di Pontedecimo e alunni di una scuola primaria con la regia del Teatro dell’Ortica

da Genova, Arianna Destito

foto di Roberto Materassi

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Arrivo al Teatro Duse intorno alle dieci per assistere a Contrasti Urbani, lo spettacolo del Teatro dell’Ortica, per la regia di Anna Solaro, frutto di un laboratorio condotto con le detenute del carcere di Pontedecimo di Genova, gli alunni, gli insegnanti e i genitori della scuola elementare Anna Frank e la scuola secondaria di primo grado Don Milani. Mi accoglie all’esterno una folla di scolaresche. Ragazzi e ragazze adolescenti e molti bambini. Quelli più piccoli in composta fila per due. Posteggiati di fronte all’ingresso due cellulari della Polizia Penitenziaria. Ecco il primo contrasto, penso. È già un pugno allo stomaco.

In platea rumorosi e vocianti i giovani spettatori si apprestano a sedersi. Sono euforici. Il teatro al posto di stare seduti in classe, vuoi mettere? Accanto a me una ragazza. Mi chiede di cosa parla lo spettacolo. Penso che qualcosa non deve aver funzionato nella comunicazione. Possibile che non l’abbiano preparata ad assistere a una pièce dai contenuti così delicati? Ma si sa, magari qualcuno era assente o distratto. E la tecnologia e i social possono distogliere dall’attenzione il più volenteroso degli studenti. Del resto non era Alfieri che si faceva legare alla sedia? imae

Le luci si abbassano. La poesia ha inizio. Da un cumulo di giornali come macerie si materializzano un gruppo di donne vestite di nero. Escono dalla prima pagina, dalla cronaca nera. Volti che narrano anche senza parlare e che a tratti riescono a sorridere di malinconia. Si muovono sul palco portandosi addosso la loro pesante armatura con grande dignità. Alcune con ironia. Sono insieme ai bambini, agli adolescenti, ai genitori, agli insegnanti. Tutti sul palco che magicamente diviene un contenitore che accoglie indistintamente. Continui contrasti di vita si incrociano, si sfiorano, esplodono.

Il verde della natura. Un verde di campi che sa di libertà, di aria sana e di sole. Foglie che piovono dall’alto. E improvvise incursioni frammentarie di vita metropolitana, affannata, senza sosta, di gente di corsa, distratta, tutti presi da smartphone che comunicano l’incomunicabilità. Fa da cornice la danza di adolescenti che narrano la loro storia di scoperta e di conoscenza del mondo. Le donne del Teatro carcere di Pontedecimo si raccontano. Raccontano le piccole cose, quelle più vere. Quelle che nel quotidiano senza fiato non vedi nemmeno più.

Le lettere tra madre e figlia e di quanto si dicano cose mai dette prima. La figlia che si prende cura della madre, ora rinchiusa, senza libertà. Che le prega di non fumare e di non dire le parolacce. ” Eh, ma qui si dicono”. La solitudine e l’isolamento di un’altra donna e della storia che si porta dietro nello zaino della vita. La mancanza di quei gesti. Semplici gesti d’amore e di sostegno di una famiglia. Di qualcuno dalla sua parte. E rivivere quella mancanza, quel buco nero di oppressione, come una condanna nella condanna, una costante nella sua vita, come se non riuscisse a cambiare copione. Il momento più emozionante quando la donna riceve gesti di cura da una luminosa Anna Solaro (nomen omen), in un coinvolgente atto d’amore, di liberazione e di vita. Come una danza tra due corpi narranti che si incontrano e si danno reciprocamente forza.

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Cosa manca di più a chi è dentro?

Fare colazione in giardino. Sotto il sole.

Vedere il mare.

Respirare l’aria, leggera, fresca.

Le piccole cose.

Gli affetti lontani.

Per un giorno le donne di Pontedecimo, su quel palco, hanno respirato. E si sono liberate di quell’armatura nera pesante e hanno mostrato la loro anima colorata. Per un attimo le scolaresche in platea riescono persino a zittirsi. Un attimo forte e sentito. L’emozione è arrivata.

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Dietro le quinte incontro Anna Solaro

Come nasce il progetto e da quanto tempo ci lavorate?

Il progetto nasce nel carcere di Marassi con un laboratorio teatrale in custodia attenuata condotto a partire dal 2009 da Mirco Bonomi e Mario Flamigni, proseguito poi da me e Simona Garbarino. Cinque anni fa con Simona ci spostiamo a Pontedecimo e lì mi viene l’idea di “azzardare” un progetto che potesse mettere insieme il dentro e il fuori con due realtà apparentemente non dialoganti : i detenuti con i bambini. Si è dato il via ad unacollaborazione  proficua con la scuola Primaria Daneo, che è durata fino all’anno scorso e che in fase di percorso ha visto partecipare anche gli insegnanti, Pontillo e Audifredi tra gli altri e i genitori dei bambini. Sono subentrati come miei collaboratori gli attori del Teatro dell’ Ortica, Giancarlo Mariottini e Chiara Valdambrini. L’idea progettuale in questi anni si è sviluppata in un incontro possibile dialogante, poetico, fertile attraverso il quale i detenuti si sono spogliati dei loro abiti per potersi ricontattare come persone, e la comunità del fuori ha allargato i propri margini lavorando sull’abbattimento dello stigma e su una formazione permanente  volta all’inclusione sociale. Da quest’anno il modello, verificato  funzionante,  è stato trasferito in una rete scolastica differente, la primaria Anna Frank di Serra Riccò, con l’insegnante Milena Gazzola e la secondaria di primo grado Don Milani, con gli insegnanti Federica Vimara e Paolo Barbero.

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Come sei riuscita ad amalgamare contrasti e diverse realtà che alla fine si sostengono?

Per poter lavorare bene sui contrasti è fondamentale ascoltare i propri e dismettere le proprie finte certezze.” È una cosa che può capitare a tutti noi” mi diceva una delle mamme coinvolte nel progetto. Nelle diversità si possono riconoscere le similitudini con l’altro scoprendo infiniti punti di contatto. Curando l’altro ci si cura perché si è costretti a guardarsi.

Come è stato l’incontro tra i bambini più piccoli, gli adolescenti e le donne di Pontedecimo? C’è qualche “immagine” che ti ha colpito?

“È stato un incontro fra generazioni”. “Non ci siamo sentite diverse”. “Ci siamo sentite PERSONE” Ecco cosa dicevano le donne di Pontedecimo, dietro le quinte, abbracciando bambini e adolescenti e gli altri adulti. Un gesto per loro vietato dalla distanza delle sbarre, ma anche per noi poco praticato. Il contatto che ha sviluppato intimità, emozione, racconto è stata una riscoperta per tutti.

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Da dove ripartire per ricominciare, quale comunicazione e quale linguaggio per oltrepassare muri di pregiudizio e disinformazione? 

Per abbattere i muri occorre attivare una formazione permanente della società civile. Mi occupo di cultura e per il tipo di teatro che porto avanti con una certa militanza, credo che la cultura non possa essere mai disgiunta dalla promozione sociale, nella coltivazione e cura di un bene comune dell’altro, risorsa da includere e non da escludere. Il teatro nei miei palchi diviene di nuovo la piazza in cui stare insieme. Ed  anche un luogo personale di riflessione in cui poter accettare le fragilità di ciascuno.
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“A scuola ci vedevamo spesso, due volte a settimana anche al sabato. È un lavoro che ci ha preso e abbiamo donato il nostro tempo extra scolastico con piacere. Provare fino a tardi non è stato un peso. Ci vedevamo anche il sabato. È stato bello”. Mi racconta uno dei giovani protagonisti. “Ho avuto una Formazione di espressione corporea, lavoro da sempre con i laboratori teatrali a scuola per consolidare il gruppo, eliminare le differenze e le competizioni.” Milena Gazzola, insegnante alla scuola primaria Anna Frank. “Crescere con l’esempio che si può stare tutti insieme senza muri e eliminarli. In modo che da adulti si ricordino di questa esperienza. E di fronte al detenuto pensino che sono persone come noi senza stigmatizzare far capire che si sbaglia e si paga. E si cerca di stare a contatto con la loro parte bella. Il carcere deve essere riabilitativo. In nord Europa il carcere è riabilitativo e funziona perché si punta sulla riabilitazione. Alcuni pensano il contrario, che il carcere non debba riabilitare. Abbiamo lavorato a questo progetto tutto l’anno. Abbiamo scritto lettere, mandato disegni e poesie alle donne di Pontedecimo. I bambini le conoscevano già di nome. Quando le hanno viste hanno associato la loro immagine con quella che si erano fatta loro. Con i ragazzini più grandi forse è più difficile perché lo stigma è già passato. Per questo è importante lavorare con i bambini più piccoli perchéè un seme formativo che da qualche parte germoglierà.”

 

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