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Riforma +Italicum = Veleno per la democrazia. Ecco perché

L’avvocato che affondò il Porcellum spiega il mix velenoso tra la “riforma” di Renzi e l’Italicum. Il Comitato per il No lancia la seconda fase della campagna

di Francesco Ruggeri

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C’è contraddizione tra l’aver votato sì in Aula alla riforma e annunciare il no il 4 dicembre? Secondo l’avvocato Felice Besostri no, se si tiene in considerazione l’intreccio tra italicum e legge Renzi-Boschi. Felice Carlo Besostri è un avvocato e politico italiano, senatore per i Ds dal 1996 al 1999, e noto per vari ricorsi contro alcune leggi elettorali, in particolare per il ricorso che ha condotto all’abrogazione parziale del Porcellum. Sempre senza onorari è difensore nei ricorsi presentati contro l’Italicum.

Basta considerare l’art. 90 della Costituzione sull’elezione del presidente della Repubblica, che è rimasto invariato. «Con la Carta attuale – spiega Besostri – la maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune è calcolata su 950 membri (630 + 315+ 5 senatori a vita) quindi 476; con la riforma è ridotta a 366 (cioè 630 + 100: 2= 365 +1). Chi vince il premio di maggioranza alle elezioni ottiene 340 voti di maggioranza – spiega Besostri – il che significa che gliene mancano appena 26 per arrivare alla maggioranza assoluta. Anzi, in realtà meno perché ci sono 12 deputati della circoscrizione estero che si aggiungono al premio di maggioranza: ne bastano sei per arrivare a 346 voti. Poi ci sono i 12 delle regioni Val d’Aosta e Trentino Alto Adige di cui 9  uninominali e sempre acquisiti comunque al primo turno, molti di loro filogovernativi da sempre: quindi  360 + 6 esteri + 9 regionali autonomi = 355. A questo punto – conclude Besostri – ne mancano solo 11 e non sarà difficile trovarli tra i sindaci e i consiglieri regionali seduti a Palazzo Madama appartenenti allo stesso partito del presidente del Consiglio dei ministri: una bazzecola».

Intanto, il Comitato per il NO nel Referendum Costituzionale ha presentato le prossime iniziative organizzative e politiche per la seconda fase della campagna referendaria, quella che ci porterà direttamente al voto: dai materiali di propaganda al logo unitario, all’appello per una nuova sottoscrizione, dopo il successo della prima che, come ha illustrato Alfiero Grandi, ha portato nelle casse del Comitato ben 180mila euro grazie al sostegno di 1200 donatori, ai quali in questi giorni viene inviata una copia anastatica della Costituzione del 1948. Soldi tuttavia insufficienti per arrivare fino al 4 dicembre e per questo è pronto un nuovo appello ai cittadini per raccogliere i fondi necessari ad affrontare l’ultima parte della campagna, quando si chiuderanno gli spazi per la propaganda del Comitato, ma si apriranno quelli unitari con le forze politiche che hanno fin qui aderito al Comitato (si punta ad un testo comune oltre al logo unitario) e quelli dei canali social, dove il No viaggia vincente e ai quali saranno dedicate molte energie. Nel frattempo, il prossimo weekend a Roma si svolgerà la Festa della Costituzione, tre giorni di dibattiti, eventi, incontri e musica. A quanti parteciperanno alla nuova sottoscrizione verrà inviato un “certificato di sana e robusta Costituzione”.

Il fronte del sì, invece, conta su ben tre milioni di euro (90% da fondi pubblici, direttamente o indirettamente) cui si aggiunge la presenza inaudita del presidente del consiglio nelle trasmissioni del servizio pubblico radiotelevisivo che attraverso il canone è pagato appunto da tutti i cittadini. In violazione palese, ha spiegato Vincenzo Vita, delle norme già in vigore e per le quali «Renzi non sarebbe potuto andare da Giletti. Si tratta di un’invasione barbarica del sistema radiotelevisivo pubblico ma anche privato, visto che anche le emittenti private utilizzano un bene pubblico. Aspettiamo sempre che Cardani batta un colpo». Quanto allo spot “istituzionale” andato in onda in questi giorni «ci auguriamo che venga ritirato ad horas».

Il comitato ha ribadito il carattere «eversivo» della “riforma”, come ha spiegato il professor Pace, perché varata da un parlamento illegittimo eletto con una legge elettorale giudicata incostituzionale. «È vero che la Consulta, in virtù del principio della continuità degli organi costituzionali, ha ribadito che gli atti di questo parlamento erano da considerarsi legittimi, ma solo fino alla fine della legislatura che avrebbe dovuto essere sciolta al più presto, cioè in tre mesi. Invece la legislatura è proseguita e, incredibile, questo parlamento, drogato dal premio di maggioranza, ha persino messo in moto l’azzardo di un procedimento di revisione costituzionale che riguarda ben 47 articoli». Per non dire che la riforma costituzionale viola due tra quelli che la stessa Corte Costituzionale ha giudicato i principi supremi della Carta, quelli indicati dagli articoli 1 e 3. Per questo, se rimane, il Senato deve essere elettivo, altrimenti si può optare per il monocameralismo con legge elettorale proporzionale (cosa che spesso i sostenitori del sì si dimenticano di dire quando tirano in ballo il dibattito a sinistra su questo tema). La riforma, inoltre, si prefigge l’obiettivo, ancorché non dichiarato, di ridurre la rappresentatività e dunque indebolire il parlamento, cosa che permette di evitare il confronto sociale e approvare leggi impopolari e sgradite alla maggioranza dei cittadini. È un’esperienza già  vissuta, basta pensare a Buona scuola e trivelle. In questo senso la riforma Renzi-Boschi consolida una tendenza già in atto, mentre per cambiare e rovesciare lo schema bisogna votare no. Da Alfiero Grandi, infine, anche un messaggio alla minoranza Pd: «Il fatto che una parte del Pd abbia detto esplicitamente no è una novità politica importante che apre uno scenario nuovo. Anche perché bocciare la riforma vuol dire affondare automaticamente anche l’italicum». Ma la sinistra dem voterà davvero No o si lascerà soddisfare dalla promessa di un ritocchino alla legge elettorale?

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