Migranti, Proactiva Open Arms contro le mistificazioni dei governi: “Nulla da nascondere, noi salviamo vite, quello che dovrebbe fare l’Europa”
Due punti nodali, uno all’inizio e l’altro al termine di una lunga conferenza stampa che si è tenuta con Oscar Camps, direttore di Proactiva Open Arms, e Riccardo Gatti, coordinatore della missione nel Mediterraneo Centrale. Dopo una audizione al Senato (Commissione Difesa) che ha preso le mosse da un’indagine conoscitiva su quanto sta accadendo nel Mediterraneo, e nel poco tempo fra un volo e l’altro, i due operatori umanitari hanno voluto incontrare i giornalisti nella sede della Stampa Estera di Roma, per spiegare e rompere il muro di mistificazioni che sta avvolgendo il loro operato. Il loro e quello di tutte le altre Ong che fanno ciò che spetterebbe ad un impegno politico europeo. Salvare vite.
Partiamo dai numeri. Sono 18.012 le persone salvate dallo scorso maggio da Proactiva, con imbarcazioni in grado di portarne non più di 400 per volta. Decine di migliaia (70 mila nel 2016) quelle salvate, soprattutto durante l’estate, dalle altre Organizzazioni umanitarie con le loro 12 navi. Ma con l’arrivo della cattiva stagione Proactiva è rimasta da sola, insieme a SOS Mediterranee con la nave Aquarius. Forte l’impegno della Guardia costiera italiana, costante quello della Marina militare, quasi del tutto assente quello di Frontex e dell’Operazione Sophia, di EUNAVFOR – MED. Le imbarcazioni cariche di migranti non vengono individuate con la necessaria tempestività, pur trovandosi, come è stato ripetuto più volte, nel tratto di mare più controllato e militarizzato del Mediterraneo, forse del pianeta. Oscar e Riccardo rispondono con precisione alle domande che piovono da giornalisti di mezzo mondo – pochi gli italiani – ma non ci stanno a lasciarsi mettere sul banco degli imputati e rispondono con serenità e senza giri di parole. In questi mesi sono state messe in dubbio le ragioni della loro attività, la scarsa trasparenza nell’accumulazione e nell’utilizzo delle risorse impiegate, il ruolo occupato in questa situazione esplosiva. Le risposte, precise e circostanziate, non sono mancate.
«Ci sosteniamo con il contributo di 35 mila donatori privati, da cui giunge il 96% delle nostre risorse. Lo scorso anno abbiamo avuto circa 2.200 mila euro e ne abbiamo impiegati 1.700 mila, tutto è regolarmente contabilizzato» racconta Oscar Camps. «Siamo orgogliosi del fatto che a riconoscere il valore del nostro lavoro e a sostenerci siano persone come Pep Guardiola (allenatore del Manchester City) e la sua squadra, e l’attore Richard Gere». Proactiva ha cominciato ad operare a Lesbos, nell’Egeo, nel 2015, e la scorsa primavera si è trasformata in Ong con sede a Badalona, nel Nord Est della Spagna. Oscar e gli altri sono riusciti ad armare una piccola nave, poi sostituita. Un lavoro immane, svolto per lo più da volontari (solo l’equipaggio, il direttore e alcuni dipendenti ricevono un compenso, ma da quello che raccontano il loro impegno non ha prezzo). Perlustrano tratti di mare enormi e quando ricevono una segnalazione partono immediatamente, sapendo che trovare il punto da cui giunge la richiesta di soccorso è molto difficile. E qui si smonta una delle prime accuse rivolte dalla stampa e da alcune forze politiche. «Nella maggior parte dei casi, la chiamata ci giunge dalla Guardia Costiera di Roma, dal Maritime Rescue Coordination Center (MRCC). Chi parte ha un satellitare usa-e-getta Turaya, con cui chiama Roma e, se ci riesce, comunica le proprie coordinate. Altrimenti bisogna attendere che la Compagnia telefonica, con sede in USA, invii a Roma gli elementi per identificare la provenienza del segnale: passa almeno un giorno, e in un giorno tutto può accadere. Ci muoviamo con i cannocchiali sempre pronti, comunicando periodicamente la nostra posizione a Roma (ogni 4 ore di giorno, e ogni 2 di notte). A volte siamo noi ad individuare i gommoni. Ci hanno accusato di lanciare segnali a chi sta per partire, ma non facciamo altro che scrutare il mare, anche di notte, perché anche un’ora può essere fatale».
Missioni che durano 15 giorni interrotte da una pausa, il tempo di caricare nuovi volontari, giornalisti che vogliono vedere con i propri occhi, e poi si riparte, facendo i conti col fatto che il mare a volte riserva sorprese che sanno di miracoloso e altre l’incubo dei cadaveri che galleggiano. «Nella missione in cui abbiamo recuperato cinque morti ci è stato possibile trovarli perché avevano i giubbotti di salvataggio. Dei naufraghi di altri gommoni non abbiamo più trovato traccia. Quando muori vai a fondo. Solo col tempo il corpo si gonfia e a volte riemerge, ma non sempre. Su cinque cadaveri recuperati, riteniamo che sul fondo siano rimaste almeno altre 250 persone». Non raccontano questi aspetti per gusto del macabro, né per il cinismo di chi è abituato a fare i conti con la morte ogni giorno. Vogliono comunicare quello che provano e vivono ogni giorno, a volte ogni ora, tanto da avere bisogno di una piccola equipe di sostegno psicologico, perché altrimenti non si riesce a sopportare tutto e a continuare. Che persone del genere siano accusate di “favoreggiamento”, “business”, o di essere la causa dell’arrivo dei migranti fa veramente indignare. Chi non ci crede può andare con loro, può passare due settimane in balia del mare e poi decidere se credere a Frontex o alle testimonianze delle persone salvate.
Una strategia contro le Ong?
Come abbiamo già documentato più volte e ampiamente, l’offensiva contro Proactiva e le altre Ong è partita prima dai grandi giornali, poi da alcuni esponenti politici. L’accusa era la stessa che un tempo veniva fatta in maniera rozza all’operazione Mare Nostrum in Italia: costituire un fattore di attrazione (pull factor) per i migranti a venire in Europa. Stavolta l’attacco ha utilizzato ogni strumento, dalle grandi testate ai giovani blogger, alle trasmissioni televisive che di solito fanno notizia: in tanti si sono prodigati a dire che chi pretendeva di aiutare i fuggitivi nei fatti era causa della loro morte. Le Ong come pull factor, ovviamente a scopo di lucro, per far arrivare in Italia persone che altrimenti non sarebbero partite. Nel calderone mediatico è stato utilizzato di tutto: si è detto che sulle imbarcazioni si trovavano terroristi che avrebbero diffuso il terrore in Europa, che le Ong si stanno arricchendo funzionando come veri e propri “taxi per clandestini”. «Ha iniziato il NY con un articolo del 29 ottobre 2015 – hanno precisato Oscar Camps e Riccardo Gatti nella conferenza stampa – quando abbiamo denunciato le cause di un naufragio nell’Egeo in cui era evidente la responsabilità anche di Frontex. Forse non hanno gradito. Ma poi, quando ci siamo spostati nel Mediterraneo Centrale, la situazione è peggiorata: accuse pubblicate da dicembre a febbraio sui maggiori quotidiani tedeschi e italiani, basate su non precisate fonti provenienti da Frontex». Evidentemente la loro presenza in quel tratto di mare dà fastidio, sono testimoni non muti: non solo salvano vite, ma possono raccontare quanto sta avvenendo di criminale in un paese come la Libia di cui ci hanno fornito un quadro terribile. «La stampa domanda a noi, giustamente, come spendiamo i soldi e come li otteniamo» dice Oscar tradotto prontamente da Riccardo, «ma non si domanda che fine fanno i 200 milioni di euro dati ad un “governo libico” che controlla pochissimo, in un paese dove sono attive 1.700 milizie, ognuna con propri territori gestiti, in cui il 30% delle risorse in circolazione è dovuto al traffico di persone. Ma hanno mai ascoltato i racconti orribili e inaccettabili delle torture che subiscono coloro che finiscono nei centri di detenzione? Percosse continue, lavoro schiavo, violenza sessuale, non c’è limite all’abuso. Ogni storia che abbiamo ascoltato è un urlo di disperazione, ma per l’Europa l’importante è mettere tutto a tacere, allontanare i problemi in Libia o ancora più a Sud, e lasciare che la vita non valga nulla. Per quello che abbiamo potuto apprendere dalle persone soccorse, così come da molti di voi giornalisti, la Libia non è un “paese sicuro”, ma un luogo in cui non esiste oggi alcuna certezza, soprattutto se si è neri e si viene da paesi dell’Africa Sub Sahariana. Un paese in cui vige un razzismo di fondo. Ci è capitato di soccorrere persone che, alla vista in lontananza delle navi della guardia costiera del governo libico, ci hanno detto che preferivano morire in mare piuttosto che essere riconsegnati a loro. Abbiamo portato in ospedale un ragazzo a cui avevano sparato ad una gamba. A due sue amici, inabili al lavoro, avevano sparato un colpo in testa, a lui hanno chiesto se preferiva fare la stessa fine o prendersi un proiettile in una gamba e ha dovuto scegliere. A chi ci accusa, vogliamo far sapere tutto questo». Anche la “caccia allo scafista” che si scatena ad ogni operazione di soccorso non convince gli operatori. «Chi comanda realmente, se sale sull’imbarcazione se ne torna indietro dopo poche miglia. Alla guida viene lasciato chi ha da poco imparato a guidare, e le indagini spesso si accaniscono su persone che hanno solo cercato di non morire con i compagni di viaggio in mare, e che magari hanno ottenuto uno sconto per imbarcarsi. Addirittura si cerca di individuare l’autore della telefonata alla Guardia Costiera per incriminarlo».
Una domanda è emersa più volte: avete provato a parlare con i funzionari di Frontex? Anche in questo caso la risposta è stata disarmante: «Sì, ma non ci hanno mai risposto. Eravamo a Bruxelles per un’audizione. Noi c’eravamo, loro non si sono presentati. Ci aspettiamo che provino ad attaccarci in un’altra maniera, magari trovando testimoni disposti a dire che siamo noi a spingere i migranti a partire. Continuano a ripetere che siamo un pull factor, ignorando i mille fattori di push factor, quelli che spingono a scappare». Basterà promettere un visto, un permesso di cittadinanza, la possibilità di un’accoglienza migliore, per trovare testimoni disposti a sostenere simili falsità.
Nelle stesse ore in cui si svolgeva la conferenza stampa, Fabrice Leggeri, direttore esecutivo di Frontex, veniva audito al Senato, sempre in Commissione Difesa, e pur fra mille distinguo affermava la complicità fra Ong e trafficanti, anche se per ragioni puramente umanitarie. Un’audizione complessa e interessante, ricca di spunti e informazioni preziose, che consigliamo di ascoltare integralmente. Leggeri ha fatto notare come nel quadro di una sostanziale diminuzione del numero di migranti che affrontano la traversata del Mediterraneo centrale, i primi tre mesi del 2017 abbiano segnato un aumento degli arrivi del 25%. Un quadro legato anche alla grave situazione di instabilità in Libia. Secondo Leggeri c’è stata una evoluzione del ruolo delle Ong negli ultimi due anni, che hanno messo in campo imbarcazioni di soccorso che nella maggior parte dei casi erano coordinate dal MRCC di Roma, e quindi operavano in cooperazione. Ma, secondo Frontex, dall’estate del 2016 è cresciuto il numero delle operazioni effettuate direttamente dalle Ong (un terzo), mentre Frontex interviene nel 10% dei casi. Nonostante le 11 navi di Triton, Operazione Sophia, Guardia costiera e Marina italiana, intervengono soprattutto le Ong. E, altro cambiamento rispetto al passato, le Ong intervengono soprattutto nei pressi della costa libica (a 20-25 miglia, ma a volte entro le acque territoriali). Tanti mezzi, osserva il direttore Frontex, eppure aumentano i morti. Secondo audizioni di migranti, in alcuni casi gli “scafisti” darebbero telefoni ai migranti con i numeri telefonici delle Ong, e “uomini libici in uniforme” sarebbero in contatto con le Ong, soprattutto nella parte occidentale della Libia. Il Direttore dell’Agenzia lo afferma sulla base di “fatti riferiti da migranti”, di “ricatti esercitati da chi è in uniforme che minacciavano di morte se le Ong non abbandonavano le imbarcazioni”. Per Leggeri, le Ong sono in “buona fede umanitaria”. E, sempre secondo Frontex le persone che arrivano per entrare in Italia hanno il “profilo di migrante economico”. Lo si afferma basandosi sui paesi di provenienza e su dati meramente numerici ( diminuiscono coloro che arrivano dal Corno d’Africa e aumentano da Bangladesh e Africa Occidentale) e per questo “diventa importante l’opera dell’UE con alcuni paesi come il Niger per fermare le persone prima”. Ma il ruolo di Frontex è molto rivolto a garantire la “sicurezza” e quindi nell’audizione è stato evidenziato il timore per l’arrivo di foreign fighters che hanno operato in teatri di guerra e che tornano in Europa e la necessità di maggiore controllo. Ma l’intervento di Leggeri è spaziato dal funzionamento degli Hotspots allo sviluppo dei rimpatri (conferma di operazioni con Sudan e Afghanistan) al ruolo del lavoro realizzato da AFIC (Africa Frontex Intelligence Community ) e quindi di cooperazione con i paesi africani. Ad una domanda specifica relativa alla richiesta della Commissione parlamentare che sta svolgendo un indagine conoscitiva sulla situazione nel Mediterraneo Centrale, di poter conoscere quali sono le Ong i cui “numeri di telefono” vengono girati ai migranti in viaggio, il responsabile di Frontex ha dichiarato di non poter rispondere rinviando tali informazioni ad una richiesta dell’autorità giudiziaria.
Una fase di stallo insomma, se si eccettuano le indagini aperte dalla Procura di Catania in cui ci sono persone informate dei fatti ma nessuno è iscritto nel registro degli indagati. Da Proactiva avrebbero anche voluto interloquire con la procura, anche perché la loro nave è rimasta inutilmente bloccata in porto, avrebbero potuto fornire ogni elemento fosse stato ritenuto utile. Ma ad oggi la procura non intende parlare con loro. In questo quadro, anche su sollecitazione dei giornalisti, i due responsabili di Proactiva hanno detto espressamente che se per Frontex o per le altre autorità risultavano dei comportamenti tali da potersi considerare come reato sarebbe stato giusto denunciarli e portare in giudizio le Ong responsabili. Ma niente di questo è stato fatto e, raccontano Camps e Gatti: «Quando abbiamo portato a Catania 5 salme hanno bloccato la nostra nave per come tenevamo il pane nel congelatore, ci hanno cominciato a chiedere come prendevamo i soldi ma non appena abbiamo chiesto di capire quali accuse ci venivano mosse le domande in tal senso, verbalizzate, si sono interrotte. E poi se una indagine di tipo fiscale dovesse interessare la nostra Ong a condurla dovrebbe essere una procura del nostro paese, dove paghiamo le tasse, non certo quella di un altro Stato». Insomma il senso di quanto sta accadendo in questi mesi è intimidire, far diminuire anche il numero di donatori – cosa che in parte sta avvenendo ci dicono da Proactiva – impedire di continuare l’intervento in mare. Eppure sono loro stessi a dire che: «Noi vorremmo poter sparire, vorremmo che non ci fosse più bisogno del nostro intervento e che ad eventuali operazioni di soccorso venissero svolte dall’UE. Non vogliamo diventare una organizzazione che passa la vita a recuperare naufraghi ma che ce ne fossero sempre di meno». E non intendono neanche procedere con querele contro chi tenta di mettere loro i bastoni fra le ruote: «Preferiamo spendere i soldi che sarebbero necessari per le procedure legali, in interventi in mare, per noi le persone sono più importanti. Che c’è di strano». Come confermato da numerosi report internazionali la situazione in Libia sta peggiorando e corrisponde al vero il fatto che si tenti di scappare più rapidamente nel timore che si realizzino grandi campi di detenzione per fermare le persone, magari controllati e gestiti da milizie che troveranno un accordo con finanziamenti UE, ma in cui non sarebbe neanche possibile controllare il reale rispetto dei diritti umani. E molta preoccupazione destano gli accordi che si vanno stringendo con altri paesi africani che dovrebbero ricevere risorse per impedire anche di arrivare in Libia, a qualsiasi costo. Allontanare le vittime sarà il tentativo utilizzato per convincerci che non esistono. Una prospettiva che non fermerà la fuga delle persone ma che la renderà semplicemente più rischiosa. Non a caso su un punto c’è concordanza di analisi fra Frontex e Proactiva Open Arms: «Mai come ora il Mediterraneo è pieno di strumenti e navi di controllo adeguate al salvataggio, mai come ora sono in aumento i morti in mare».
Proactiva in questi giorni ha sospeso le proprie operazioni che riprenderanno presto, Oscar Camps il 22 aprile prossimo verrà ricevuto da Papa Francesco in udienza privata: «Da tempo quella che è una delle 5 autorità mondiali più importanti condivide le nostre preoccupazioni – ha affermato Camps – e riteniamo prezioso sapere che lui voglia ascoltare la nostra voce. E c’è da pensare che in quel colloquio riemergeranno anche altre considerazioni, poco adeguate alla fretta dei giornalisti bisognosi della notizia ma più idonee a ricostruire una dimensione dell’operato dell’Ong.
Ed è questo il secondo punto nodale rimasto purtroppo a margine. Un giornalista, non casualmente proveniente da uno dei paesi di fuga, ha chiesto ai due operatori cosa accadeva durante le ore che intercorrono dal salvataggio all’approdo su terra ferma e la risposta ha dato da riflettere: «Ci capita di restare in compagnia dei naufraghi per 30 o 40 ore prima di raggiungere il porto – hanno affermato Camps e Gatti – All’inizio prevale il freddo, la paura la necessità di comprendere di essere giunti in salvo che viene accompagnata dalle necessarie cure mediche di cui tutti hanno bisogno. Poi si fraternizza, in molti ci raccontano le loro storie, si vive insieme e non si avverte la distanza fra il soccorso e il soccorritore, fra l’europeo e chi arriva dall’Africa, ci si riconosce». «Ad un fotografo che è venuto con noi- racconta Gatti – ho chiesto di fotografare il cambiamento dei volti che avveniva quando si giungeva in porto e quelli che erano con noi vedevano schierati gli agenti in assetto antisommossa che li aspettavano. Il fotografo mi ha sorpreso perché ha fotografato soprattutto gli agenti e il loro stupore. Erano stupiti nel veder scendere persone che ci salutavano e ci abbracciavano come si fa fra amici, con affetto e calore reciproco. Io chiedo sempre ai volontari che vengono con noi di utilizzare al meglio questa parte del viaggio. Si impara tantissimo, si capiscono i perché tanti uomini, donne e bambini rischiano così la vita e si distruggono le fondamenta di alcuni discorsi oggi dominanti». Certo è che mai come adesso sarebbe necessario un pronunciamento della politica e della stampa più seria come degli intellettuali: «Noi cerchiamo di salvare vite ma ad altri spetta trovare soluzioni». ha chiosato Camps. Ma l’unico segnale positivo finora giunto proviene da 23 parlamentari europei guidati da Miguel Urbàn Crespo e Barbara Spinelli che hanno preso fermamente e pubblicamente posizione. Rimane alta la preoccupazione che le forti pressioni esercitate sulla Guardia costiera italiana e l’aumento degli aiuti alla sedicente Guardia costiera libica possa comportare una ulteriore limitazione alle attività di soccorso svolte dalle Ong indipendenti e ad un aumento delle imbarcazioni, cariche di migranti che, al limite delle acque territoriali libiche, verranno riprese e ricondotte a terra, magari sotto gli occhi delle unità navali europee. Una soluzione che potrà verificarsi sempre più di frequente e che avrà come conseguenza l’internamento dei migranti nei centri di detenzione, formali ed informali, presenti in Libia, nei quali potranno essere oggetto di abusi e di commercio schiavistico.
Adif è l’Associazione diritti e frontiere