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L’Europa di cui non possiamo fare a meno

Re-inventare l’Europa non per gareggiare con Usa o Cina ma per diventare ospitale verso tutti i suoi abitanti e amica a tutto il resto del pianeta

di Mario Lusi

Finisco di leggere in questi giorni i dialoghi che Colorni e Spinelli cominciarono ad intrecciare verso la fine degli anni ’40, una ricerca intellettuale senza confini sulla filosofia, l’amore, l’economia, l’azione, il successo, la scienza, e il mio pensiero, inevitabilmente, partendo dal dibattito federalista dell’epoca, si sposta sull’Europa che vorrei oggi. Mi sono tornate alla mente le elezioni europee del 1994, quando Alex Langer scriveva nel programma elettorale che “la vecchia ricetta dell’unificazione europea attraverso la crescita e l’integrazione europea” aveva solo procurato “mercificazione e degrado dell’ambiente, disoccupazione massiccia, competizione selvaggia”.

Mentre diventa necessario, aggiungeva, “re-inventare l’Europa “non al fine di gareggiare con l’America o il Giappone [e la Cina aggiungo io oggi], ma per diventare ospitale verso tutti i suoi abitanti e amica a tutto il resto del pianeta”. Ecco, credo che ci troviamo ancora su quel percorso obbligato di dover re-inventare il vecchio continente, pena la sua frantumazione definitiva, questa volta. E occorre invertire completamente la rotta rispetto all’idea di cui ancora la Commissione Europea è portatrice, ossia che gli oneri del riequilibrio macroeconomico in Europa debbano ricadere sui mezzogiorni d’Europa, che dovrebbero continuare a mettere in atto le cosiddette, ormai trite e ritrite “riforme strutturali”, che altro non sono che una ulteriore compressione di salari, diritti e costi di produzione.

Ma questo è un film già visto che ci ha portato al collasso. Altre sono le vere “riforme” di cui abbiamo urgente e improrogabile bisogno, se vogliamo che questo termine ormai consunto assuma ancora un qualche significato, e sono quelle del sistema finanziario e della politica fiscale e monetaria, in grado di contrastare sperequazioni trai redditi e i territori, politiche che risollevino semmai l’occupazione nelle periferie dell’Unione, come avevano sottolineato un gruppo di studiosi di fama internazionale dal “monito degli economisti” pubblicato nel 2013 sul Financial Times.

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