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Cosa ne sarà del Noi/ Ora che l’aria delle città non rende liberi

Oltre i luoghi del disagio. La riflessione di un architetto su un’urbanistica a prova di pandemia

di Gianni Colabianchi/Foto di Cinzia Santarsiero per Popoff

Ora che le porte della percezione sono state purificate, il mondo umano d’oggi non appare come aveva predetto William Blake infinito, ma finito, isolato, fragile al limite della vulnerabilità esistenziale. Molti eroi deceduti, ma la gran parte anziani, memoria di questo paese. In un momento breve, un piccolo filo inanimato, ci ha fatti passare da un mondo caotico, dove il profitto e gli impegni pressanti ci facevano correre ed allontanare dall’essenza delle cose, alla paura del presente, allo spettro di una morte collettiva che non avrebbe risparmiato nessuno. Una tragedia umana dalle proporzioni bibliche; un salto interspecifico (spillover), avvenuto non dalle cavallette ma dagli animali da sempre utilizzati nei film di terrore, i pipistrelli. Non ci ha salvato da questo nemico invisibile, né il potere, né i soldi, né l’intelligenza, né la bellezza, né avere orgogliosamente una Ferrari rosso fuoco nel parco macchine. Sono state le cose semplici, da due soldi a rassicurarci: una mascherina, un paio di guanti da zeroventi Euro, l’amuchina e, cosa tristissima un metro e mezzo di distanza.

Tutti fermi meno pochi eroi salvatori in un mondo di salvati; la preoccupazione costante, poi, se le goccioline si sarebbero depositate anche sulle superfici inanimate come la plastica, il vetro, l’alluminio, le mattonelle ed i sanitari del bagno. Gli enormi palazzi del potere e della cultura, alti a sproporzione e pieni di meravigliose bellezze, vuoti. Questo minuzzolo di materia ha portato guerra alla stessa democrazia: dilatazione di poteri, controllo totale dell’economia, bollettini di morte e conforto nel tardo pomeriggio. Granello=Sistema emergenziale. La solita burocrazia a mediarne i tempi in un’Europa dalla verginità profanata. In qualche paese mitteleuropeo, sono state legittimate a suo nome persino accenni a derive autoritarie. Nella stessa nostra stabile democrazia, un comandante Alfa a spiegarci che quando c’è un nemico da combattere chi meglio di un generale con gli attributi come lui. Putin o Xi Jinping la soluzione, diceva all’inizio del lockdown il mio vicino di balcone che ”a quelli che escono gli sparano”. La difesa una costante nei dibattiti.

 

Questo RNA a filamento positivo, ha portato con se il germe del rafforzamento di queste situazioni, ma anche canzoni ai balconi, chiacchiere addirittura coi vicini malevoli, tutto dettato dalla paura, emozione primaria di difesa.

Uno scampato come me che ha resistito a questo tempo in modo stoico (ma non eroico), come altri, con mascherine, gel e guanti usati qualche volta in modo ossessivo, si è posto ripetutamente questa domanda: si può abbozzare qualcosa di contrario a tutto ciò, riflettere su spazi abitativi tornati di moda come l’appartamento con i suoi balconi, il palazzo, il quartiere, la città, i borghi rurali?

E’ possibile stabilire un altro modello generale dell’abitare? Se è vero che il momento di quarantena impone alle istituzioni che governano la nostra vita sociale, di pensare e ripensare alle politiche di sopravvivenza, di sostegno, di ripresa, ad un architetto è lecito pensare ed immaginare un futuro architettonico ed urbanistico diverso da quello precedente. Un processo di trasformazione territoriale che tenga necessariamente conto dell’accaduto, delle criticità incontrate, delle follie distributive, del disvelarsi del degrado negli spazi costruiti, dei carichi urbanistici insofferenti.

Abbiamo visto come queste punte a forma di corona non solo fanno ammalare ed ingrippare le nostre esistenze, ma di fatto anche gli ingranaggi giganteschi di questi centri aggregati per un’estensione illimitata. Le punte hanno perforato ed aperto il modello che perdura dalla fine dell’ottocento, con l’avvento dell’elettricità, della luce, quando i processi lavorativi si sono moltiplicati e le città sono diventate meta e sogno di milioni di persone. Ora, quest’ordine funzionale di grande centro ammucchiato, con mescolanza di umanità e di attività veloci è, di fatto, entrato in tilt. E’ la fine di un percorso che ha creato mostri in questi sciami di funzioni che si aggregano lungo assi di edifici multipiano. Non in tutti gli appartamenti si sta o si è stato bene. La paura ha corso più veloce tra gli addensati, ha creato più ansie dirompenti e disgreganti.

Pur avendo vissuto male in questi quaranta giorni, non posso immaginare come abbiano passato le giornate persone fragili al settimo piano di Corviale, dai ballatoi pieni di venti ululanti e la paura di essere accerchiati da possibili diecimila untori. Per non parlare del Tiburtino, di tutta l’ampia periferia e degli stessi palazzoni storici Umbertini, (prima speculazione), scatole chiuse senza aria, ne sole di questa strampalata primavera. Un pezzo di città che porta all’uscire per non impazzire. Questi edifici che lasceranno virus mentali per anni, dobbiamo avere il coraggio di ripensarli, forse abbatterne tanti, ricostruirli nella predisposizione progettuale consapevole, con altre proposte meno utopiche, meno ideologiche, meno celebrali. Bisogna in questa crisi di nervi collettiva e d’esistenza, decostruire, disorganizzare l’idea di citta dimensionale pensata da utopie e stoltezze del dopoguerra.

Siamo tra l’altro ad un fine vita della maggior parte di essi, costruiti con fretta negli anni della espansione, senza acciaio ed afflitti dal colera del cemento (ossidazione), che tende a disgregarli. Di seguito e nello stesso tempo va urgentemente pensato un modo diverso di ri-distribuzione coerente. E’ possibile in questa astenia persistente, considerare gli spostamenti demografici, le mobilità sociali e territoriali, le contraddizioni e le opportunità, ragionando all’incontrario?. Invertire, destoricizzare, separare queste dinamiche che sono andate in crisi?

Emerge con estrema forza l’esigenza di ricollegare il tessuto sociale fragile di queste realtà disurbane/disumane. Le aree rurali, molte vicino alla città, possano diventare un serbatoio , un contenitore per intraprendere altro modo di esistenza. Ci sono territori di margine che oltre al coronavirus hanno già passato uno shock che ne ha messo a dura prova la stessa l’esistenza. Colpite da un Virus, quello dello spopolamento, che la massificazione e l’accentramento urbano dei servizi hanno creato nel corso di quest’ultimi cento anni. L’abbandono del patrimonio abitativo ha generato morte non solo di attività e di palazzi, ma anche dell’esercizio della cittadinanza per i pochi rimasti. Luoghi dove si concentrano sempre più diseguaglianze, disagi, con popolazione e territori fragili, in contrazione. Quando un piccolo paese muore, se ne va l’anima di un intero territorio. Nessuno ne curerà più la memoria, le tradizioni, nè le chiese, le piazze, le torri, le piccole strutture abitative in pietra locale. Via la posta, gli alimentari, la scuola, il prete e le funzioni. Si accendono dibattiti giusti sulle specie animale in fase di estinzione, si parla poco di questo martirio virulento che interessa molti centri della nostra regione. I paesi che a grappoli si stagliano lungo le colline e le montagne appenniniche, pur pieni di queste tematiche hanno, però, reagito meglio al Virus. Almeno alla quarantena. A differenza della massa urbana sono stati generatrici di qualità. Riabitare dovrebbe essere la parola d’ordine del futuro, rigenerare le periferie e connetterle con i centri rurali, ristrutturati, messi al sicuro sismico. Invertire il modello delle città strapiene verso i paesi vicini che si spopolano. La possibilità ce la offre la quarta rivoluzione industriale, quella della connessione totale, del cloud storage, dello smart working. Ce la offre la capacità innata di adattamento alle chiusure future. Questo combinato, può essere la scintilla per far invertire la tendenza. Spostare la domanda di lavoro sugli assi viari, un pò più in là, la soluzione. In Italia lo hanno fatto le università con gli studenti, con trasporti organizzati collettivi, telelavoro, accessibilità territoriale. Con qualità del servizio di trasporto.

Rigeneriamo le città con meno volume includendo a chi vuole la possibilità di scegliere di trasferirsi un po’ più in là. Permettiamo a tutti un accesso internet garantito dalla costituzione. Ci sono in campo già strumenti che possono essere applicati per avviare tutto questo. La salva borghi può essere rifinanziata con ingenti fondi di recupero. Ma un grande piano che finanzi il Sisma bonus al 100% potrebbe essere la soluzione. L’attivazione di un piano di accoglimento dove pubblico e privato si uniscano allo scopo. Il sisma bonus dovrebbe essere esteso alle pubbliche amministrazioni che, con piccole quote parti, potrebbero ristrutturare le loro dimore storiche, il loro ingente patrimonio pubblico per metterlo a disposizione di chi vuole trasferirsi. Tutti strumenti che insieme all’imprenditoria sociale, gli investimenti a impatto sociale, al microcredito, potrebbero rivitalizzazione contemporaneamente sia i borghi abbandonati, sia gli aggregati monstrum della città. Su tutti il nostro invidiato paesaggio, elemento cardine per una futura progettazione integrata.

 

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