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7 ottobre: il giornalismo come arma contro la distorsione e l’oblio

La stampa e le commissioni d’inchiesta hanno cercato di ricostruire gli eventi, lontano da fake news e propaganda [Rachida El Azzouzi]

LeeLee Yaron “attende pazientemente i libri dei [suoi] colleghi palestinesi sulle vittime innocenti di Gaza”. Giornalista del rispettato quotidiano israeliano di sinistra Haaretz, ha appena pubblicato 7 ottobre (Grasset), la prima grande inchiesta giornalistica “sulle vittime innocenti del 7 ottobre” nel sud di Israele, quel giorno “senza fine” in cui, sotto l’assalto di Hamas e di altri gruppi armati palestinesi, Israele è tornato, scrive, “allo stato psicologico della sua creazione o addirittura prima della sua creazione”.

Lee Yaron racconta da vicino il giorno più letale (quasi 1.200 morti, più di 250 ostaggi, 5.000 feriti) per il popolo ebraico dopo la Shoah. Fu il giorno in cui gli israeliani, e gli ebrei di tutto il mondo, si resero conto che Israele non poteva garantire la loro sicurezza in ogni circostanza, anche se per molti di loro il Paese rappresentava il rifugio definitivo.

Attingendo a centinaia di interviste, trascrizioni di telefonate, messaggi e documenti, la giornalista rende omaggio alle vittime, vive e morte: famiglie israeliane, kibbutzniks, studenti nepalesi e thailandesi venuti in Israele per istruzione e denaro, beduini del Negev fatti saltare in aria nelle loro capanne…

Onora il “campo della pace” assassinato in meno di 24 ore al confine con Gaza, perché alcune delle vittime del 7 ottobre, per lo più civili, erano attivisti pacifisti di sinistra.

7 ottobre è dedicato a Gal, uno dei più cari amici di Lee Yaron, “un uomo di pace che non è mai tornato dalla guerra”.

Studente di bioinformatica di 25 anni, è figlio di Gadi Eizenkot, attuale ministro del governo di emergenza di Benyamin Netanyahu, membro del gabinetto di guerra ed ex capo di stato maggiore (2015-2019). L’uomo dietro la “dottrina Dahiya”, un concetto di sicurezza che non distingue tra obiettivi civili e militari e si fa beffe del principio di proporzionalità della forza, base del diritto di guerra.

Chiamato come riservista, Gal è morto a Gaza anche se non voleva la guerra. Ma diceva che “rimanendo passivo, Israele avrebbe cessato di esistere”, afferma Lee Yaron. L’ autrice rende omaggio anche alle “tatzpitanyot”, le donne soldato che sorvegliano il confine. Alcune di loro sono state le prime ad accorgersi che Hamas stava testando le difese israeliane sul confine e lo hanno segnalato mesi prima del 7 ottobre 2023, senza successo.

Fin dall’inizio Lee Yaron, nota per le sue inchieste sulla corruzione e sul caos climatico, chiarisce da dove viene: giornalista di un quotidiano nel mirino del governo estremista di Netanyahu, ma anche “figlia e nipote di rifugiati sopravvissuti a persecuzioni e genocidi”, “ebrea, israeliana, donna, femminista, attivista per i diritti dei popoli che vivono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo”.

L’autrice dà volti e nomi ai numeri, intrecciando storie individuali e collettive, presenti e passate. Perché 7 ottobre non è solo un reportage investigativo. Interroga anche la storia, la costruzione di Israele, la società israeliana, le sue negazioni, i suoi punti ciechi. Proprio come l’ebraismo, che “ha leggi e regole di condotta che governano quasi ogni aspetto del comportamento umano”, ma “ha poche indicazioni su cosa fare dopo un massacro come quello del 7 ottobre”.

La barbarie

L’autore racconta la storia di Bilha e Yakovi, due vittime settantenni “esemplari nel loro essere di sinistra”. Yakovi stava lavorando per creare un ospedale per gli abitanti del loro mochav (villaggio cooperativo) e per i palestinesi di Gaza. La coppia è stata bruciata viva da un missile RPG sparato contro la loro casa.

Sabine, invece, ha votato per Netanyahu e chiedeva costantemente al suo deputato locale di garantire la sicurezza a Netiv HaAsara, al confine con Gaza. Descrive di essersi trovata faccia a faccia con due assalitori di Hamas che gridavano “morte a tutti gli ebrei! Suo marito Gil è stato ucciso da una delle loro granate. Due dei loro figli, Koren, di 12 anni, e Shaï, di 8, sono rimasti feriti. Shaï ha perso la vista dall’occhio destro. Il più grande, Or, che era andato a fare surf, fu colpito alla testa da distanza ravvicinata nei bagni della spiaggia di Zikin, dove si era nascosto con due amici del liceo.

Lee Yaron racconta a lungo il massacro di Tribe of Nova, il rave party nei pressi del Kibbutz Reim in cui furono uccise più di 360 persone e ferite 2.000. Ricostruisce il destino fatale di molte delle vittime che stavano vivendo “la festa più bella della loro vita”, come la 22enne Shani Louk.

Ferita a una gamba, è stata rapita a Gaza, seminuda nel retro di un pick-up da uomini armati che le hanno tirato i capelli e sputato addosso, come testimonia un video postato online dai suoi aguzzini. I suoi resti sono stati identificati poche settimane dopo grazie a frammenti del suo cranio.

Lee Yaron mostra la barbarie degli attacchi compiuti da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi. Documenta gli omicidi di civili e lo stupro di Raz Cohen, frequentatore del festival Tribe of Nova, che è riuscito a schivare i proiettili. Avrebbe voluto intervenire, ma era certo di morire. Descrive una scena insopportabile: cinque uomini vestiti in abiti civili, armati di pugnali e martelli, che violentano una ragazza dai capelli biondi, mentre la pugnalava a morte.

Diverse indagini in corso

La giornalista di Haaretz vede il suo libro come un “baluardo contro la distorsione e l’oblio”. In tempo di guerra, l’informazione è sempre una lotta, soffocata dalla propaganda, dalla strumentalizzazione e dalla pressione emotiva.

Dal 7 ottobre sono in corso numerose indagini, non solo da parte dei giornalisti, ma anche dei tribunali e delle istituzioni internazionali, dal Tribunale penale internazionale a vari dipartimenti delle Nazioni Unite e alla Corte internazionale di giustizia.

La polizia israeliana sta conducendo una vasta e complessa indagine sugli attentatori: quelli appartenenti alla Nukhba, l’unità d’élite delle Brigate al-Qassam, il braccio armato di Hamas; quelli appartenenti alla Jihad islamica palestinese; e infine quelli non appartenenti al commando d’élite, considerati dalla stessa Hamas “criminali senza causa [politica]”. Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot descrive l’indagine come “senza precedenti” dai tempi del processo Eichmann.

Molto lavoro giornalistico è stato fatto anche per raccontare la violenza che si è riversata in Israele quel giorno. In particolare sulla questione della violenza sessuale, come Mediapart ha riportato qui e là. Questo lavoro, ancora in corso, si svolge in un contesto difficile: i testimoni sono traumatizzati e a volte hanno difficoltà a parlare di tutto l’orrore che hanno vissuto.

Nel suo rapporto, pubblicato all’inizio di marzo, il primo di un’organizzazione internazionale a confermare le accuse di crimini sessuali da parte di Israele, il team delle Nazioni Unite guidato da Pramila Patten, Rappresentante speciale per la violenza sessuale nei conflitti, ha dichiarato di aver incontrato numerosi ostacoli, in particolare la “mancanza di fiducia nelle istituzioni nazionali e internazionali, comprese le Nazioni Unite, da parte dei sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre e delle famiglie degli ostaggi”.

Ha dichiarato di non aver incontrato direttamente le vittime, “nonostante gli sforzi concertati per incoraggiarle a farsi avanti”. Si tratta di ostacoli inerenti alle indagini sugli stupri, ma anche legati al rifiuto delle autorità israeliane di collaborare.

Il caso del New York Times è un segno dell’accesa polemica e della strumentalizzazione del delicato tema della violenza sessuale in Israele e non solo, a partire dal 7 ottobre. Il prestigioso quotidiano americano ha visto la sua credibilità danneggiata dopo la pubblicazione a dicembre – da parte di Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella – di un’inchiesta intitolata “Screams Without Words: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7” sulle violenze sessuali di massa presumibilmente perpetrate da Hamas.

L’inchiesta in questione, di alto profilo, a cui ha contribuito Anat Schwartz, ex capo dell’intelligence dell’aviazione israeliana, si è rivelata un fiasco giornalistico basato su accuse infondate e su un’etica discutibile, come dimostrato da un articolo di The Intercept, che ha rivelato la manipolazione delle famiglie delle vittime citate.

Il 22 aprile, un rapporto a lungo atteso ha evidenziato la mancanza di prove fornite da Israele in merito alle sue accuse contro l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), che ha portato diversi dei principali Paesi donatori, tra cui gli Stati Uniti, a sospendere i loro finanziamenti all’UNRWA a gennaio.

Dopo nove settimane di indagini, 200 interviste e 47 Paesi e organizzazioni contattati, il “gruppo di revisione indipendente” guidato dall’ex ministro degli Esteri francese Catherine Colonna ha concluso che Israele “deve ancora fornire la prova” che dodici dipendenti dell’UNRWA a Gaza hanno preso parte all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

Il 22 aprile è stato il giorno in cui il capo dell’intelligence militare dell’esercito israeliano, il generale Aharon Haliva, ha annunciato le sue dimissioni, affermando di “assumersi la piena responsabilità” per i fallimenti dell’intelligence nello sventare l’attacco di Hamas. Ha chiesto la creazione di una commissione nazionale d’inchiesta sul 7 ottobre, oltre alle indagini militari interne le cui conclusioni dovrebbero essere presentate allo Stato Maggiore all’inizio di giugno, secondo il Times of Israel.

Fake news” diffuse da un’associazione ultraortodossa

Negli ultimi sette mesi, diverse fake news hanno offuscato il quadro. Rapporti (come quello del relatore delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale durante i conflitti) e inchieste giornalistiche (come quella del quotidiano Libération) hanno messo in luce informazioni false che sono state ripetute senza cautela e a ripetizione nei media di tutto il mondo e ai massimi livelli di diversi Stati, non solo da Israele ma anche da diversi suoi alleati come gli Stati Uniti.

Ne sono un esempio la storia non provata di una donna incinta a cui hanno sparato alla testa e che è stata sventrata, i quaranta bambini che sarebbero stati decapitati nel Kibbutz Kfar Aza e i venti bambini che sono stati bruciati con le mani legate dietro la schiena, o la storia di una famiglia che sarebbe stata torturata mentre i combattenti di Hamas mangiavano il loro pasto di Shabbat (ripetuta dal Segretario di Stato Antony Blinken davanti al Senato degli Stati Uniti alla fine di ottobre).

Una delle cinghie di trasmissione di una serie di notizie false è l’associazione ebraica ultraortodossa Zaka, che da anni raccoglie i corpi o i loro resti dopo gli attacchi terroristici per seppellirli secondo la tradizione ebraica e che il 7 ottobre si è imposta sul terreno di fronte ai servizi di emergenza sopraffatti dall’assalto dei terroristi.

L’associazione è citata nel libro di Lee Yaron, nel capitolo dedicato alla strage del rave party, attraverso Haim Otmazgin, il fondatore e presidente delle unità speciali di Zaka che scortarono la polizia sul luogo della strage e raccolsero più di 250 salme con una quarantina di volontari.

Alla fine di gennaio, Haaretz ha rivelato che alcuni membri della Zaka avevano mentito e alterato le scene del crimine durante gli attacchi del 7 ottobre.

Una persona sembra essere al centro di queste menzogne, come mostra un’inchiesta di Libération: Yossi Landau, capo della Zaka per la regione meridionale. È stato lui a descrivere di aver visto 20 bambini bruciati nel Kibbutz Be’eri (come riportato qui su i24NEWS), ed è stato lui a sostenere di aver scoperto il corpo della “donna incinta sventrata”. Le autorità israeliane ne hanno fatto un emblema, proprio come Michal Herzog. La moglie del presidente israeliano Isaac Herzog ne ha scritto in un articolo per la rivista americana Newsweek dal titolo “Il silenzio degli organismi internazionali di fronte agli stupri di massa perpetrati da Hamas è un tradimento di tutte le donne”.

Non è l’unica moglie di un leader israeliano a diffondere una storia falsa. Sara Netanyahu, moglie del Primo Ministro Benyamin Netanyahu, ha partecipato alla diffusione della notizia che una donna incinta in ostaggio a Gaza ha dato alla luce il suo bambino in cattività, in una lettera inviata a diversi suoi omologhi, tra cui Jill Biden, moglie del Presidente degli Stati Uniti.

La missiva, che ripeteva le informazioni diffuse due giorni prima dal canale israeliano N12 e il giorno successivo dall’ambasciata israeliana in Francia, come riportato da Libération, è stata ripresa dai media in Israele (Time of Israel, i24News) e anche in Francia, dove Agence France-Presse ha pubblicato un dispaccio.

Ogni volta i social network hanno amplificato le false informazioni. Durante una visita in Israele, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ascoltato il racconto di Eli Beer, un altro leader di una ONG israeliana (United Hatzalah), che ha affermato di aver visto con i propri occhi “la donna incinta sventrata” e anche “un bambino cotto in un forno”, un’altra fake news sfatata da diversi giornalisti israeliani.

L’orrore del 7 ottobre, documentato nel libro di Lee Yaron, e le vittime in Israele non hanno certo bisogno di queste sordide strumentalizzazioni.

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