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Bombe “made in Italy” sullo Yemen. L’Italia tace

La legge 185/90 vieta il traffico di armi verso i paesi in guerra e governi  dispotici. L’Italia ha preso una posizione chiara, facendo carta straccia di ogni norma, alimentando di fatto una guerra non autorizzata

di Angelo Motola

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Un nuovo carico di bombe MK-80 prodotte dalla RWM Italia hanno preso il volo a bordo del cargo 747 della compagnia azera Silk Ways, partito dall’aeroporto civile di Cagliari e diretto alla base militare di Taif, in Arabia Saudita. Stessa rotta e stesso carico dello scorso 29 ottobre, partito sempre di notte dal capoluogo sardo, lontano da occhi indiscreti, per un totale di tre spedizioni di bombe italiane verso il Regno Saudita nel 2015. La prima era avvenuta via mare a maggio di quest’anno,  trasportata dalla portacontainer Jolly Cobalto, poi i compratori sauditi hanno deciso per il trasporto aereo, probabilmente perché mossi da una certa necessità di ricevere ed impiegare la commessa il prima possibile. L’urgenza ha un nome ben preciso e si chiama Yemen.

Qui, da circa otto mesi, è in corso un conflitto che vede l’aeronautica saudita impegnata in pesanti bombardamenti contro i ribelli sciiti. Una guerra a bassa copertura mediatica che secondo le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie, dal 26 marzo ha ucciso oltre 5.700 persone di cui 2.600 civili tra uomini, donne e bambini, due terzi dei quali sono deceduti sotto il fuoco dei raid aerei. I servizi di base sono al collasso in un Paese che già prima della guerra era tra i più poveri del Medio Oriente. 21,2 milioni di persone, ovvero l’82% della popolazione del paese, necessitano urgentemente di assistenza umanitaria, in 14 milioni non hanno accesso alle cure sanitarie, anche perché i bombardamenti non hanno risparmiato nemmeno gli ospedali. Ben 39 sono stati colpiti, l’ultimo quello di Medici Senza Frontiere nella provincia di Saada. Circa 320.000 bambini sono affetti da malnutrizione acuta, oltre 120.000 persone hanno abbandonato il paese e quasi 2,3 milioni sono stati costretti ad abbandonare le proprie case.

Quello in corso in Yemen è un conflitto che viene consumato in totale violazione del diritto internazionale umanitario, con armi e munizioni vietate, come le bombe a grappolo su obiettivi del tutto indiscriminati, su infrastrutture civili e mezzi in fuga. Crimini di guerra condannati da Nazioni Unite e organizzazioni umanitarie nel silenzio dei Paesi più influenti della comunità internazionale, che guarda caso sono anche i maggiori produttori d’armi mondiali. Amnesty International chiede la sospensione immediata della vendita di armamenti all’Arabia Saudita, che rappresenta uno dei principali clienti delle industrie militari europee e americane. L’Italia nel 2013 ha autorizzato quasi 300 milioni di euro di esportazioni di forniture belliche, il 14% delle commesse totali. La scorsa settimana il Consiglio di sicurezza federale tedesco ha deciso per la sospensione di ogni fornitura militare verso il Regno Saudita, sebbene questo rappresenti un ottimo cliente (360 milioni di euro di esportazioni nel 2013), per via della pericolosa instabilità nella regione medio orientale.

Una linea che dovrebbe essere seguita anche dal nostro Paese, in primo luogo perché è la nostra legislazione ad imporcelo. La legge 185/90 vieta l’esportazione ed il transito di materiali di armamento verso i Paesi in stato di conflitto armato, i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani. L’Italia, pur non essendo parte della coalizione saudita, né tantomeno coinvolta da nessun organismo internazionale, ha preso una posizione politica chiara, facendo carta straccia sia della normativa nazionale sia di quella internazionale, alimentando di fatto una guerra non autorizzata, anzi condannata dalla comunità internazionale.

Tutto ciò in un quadro internazionale che ha del paradossale, considerata l’instabilità della situazione geopolitica nell’area medio orientale e la minaccia terroristica globale, più che mai reale. L’autorità monarchica saudita, sulla carta alleata delle potenze occidentali, formalmente sostiene di combattere e disprezzare la furia sanguinaria dei jihadisti. Non tutti, però, sanno che ne condivide la matrice religiosa sunnita d’ideologia wahabita, che rappresenta la più rigida interpretazione dell’Islam, e soprattutto che le sue élite più abbienti finanziano con ingenti donazioni private le casse dei gruppi terroristi attraverso il sistema bancario del Kuwait.

Il fenomeno, già abbastanza noto negli ambienti dell’intelligence, è emerso in maniera ufficiale durante il vertice G20 di Antalya per bocca del presidente russo Vladimir Putin, che non ha risparmiato momenti d’imbarazzo tra i leader mondiali, ammettendo come l’Isis sia finanziato e sostenuto nel traffico illecito di petrolio da individui di 40 Paesi, alcuni del G20, tra cui, appunto, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi e Turchia.

 

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