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Noi due, gli unici stranieri ad Aleppo

Il documentarista Ruben Lagattolla e il fotoreporter Enea Discepoli, di ritorno dalla Siria, raccontano la guerra dimenticata dall’Occidente. (Video)

di Massimo Lauria

Un viaggio difficile e pericoloso, attraverso una terra diventata ostile a causa della guerra: secondo le stime ufficiali in Siria si contano oltre centoquarantamila morti in tre anni. Il documentarista e video operatore Ruben Lagattolla e il fotoreporter freelance Enea Discepoli – Pentax Ambassador – sono appena tornati da Aleppo, la città dimenticata sotto i bombardamenti, al confine nord con la Turchia. Per dieci giorni sono stati ospiti della parte “liberata” della città, quella in mano ai ribelli, a pochi metri dal fronte, al di là del quale le truppe governative attaccano giorno e notte. In quei giorni i due italiani erano gli unici stranieri presenti in città.

«Ci hanno detto che non vedono giornalisti italiani da un anno», raccontano. La situazione, infatti, è molto pericolosa per chiunque decida di avventurarsi laggiù. La comunità internazionale resta a guardare, incapace di trovare una soluzione alla crisi che tutti i giorni provoca decine di morti. Poche ore fa a Homs un’autobomba ha ucciso altre 15 persone. Questa testimonianza la dobbiamo a coraggio e alla voglia di raccontare di Discepoli e Lagattolla, e anche un po’ alla Fortuna, che ha deciso di farli tornare indietro. Ma per chi resta, per chi non può andarsene dalla propria terra, la Sorte è un giro di roulette russa: c’è solo da scrivere il nome di chi rimarrà sotto la prossima bomba sganciata sulla città.

Abbiamo raccolto questa intervista nella speranza di far apparire la guerra per quello che è realmente: un’inutile spreco di vite umane. La sofferenza generata dai conflitti armati, tutti, ci trova dalla parte delle vittime – in primo luogo civili, che sono la stragrande maggioranza – indipendentemente dagli schieramenti in campo.

Entrare ad Aleppo è difficile, il viaggio è lungo e pericoloso. Quanto tempo avete impiegato?

Aleppo è a circa 75 chilometri dal confine con la Turchia, ma per percorrerli ci sono volute sette ore di marcia. Siamo entrati in Siria da Bab al Hawa, letteralmente La porta delle Mandorle. Quella è una grossa porta di frontiera, frequentata ogni giorno da moltissime persone. Ma passare dal check point è praticamente impossibile.

Perciò abbiamo guadato un piccolo fiume dentro una tinozza di ferro, tirata da una sponda all’altra del corso d’acqua. Sul confine siriano ci aspettavano degli amici.

Avevate un appuntamento?

Pensare di avventurarsi in Sira senza contatti sul terreno è un suicidio. Ci sono posti di blocco continui, ci vuole la macchina giusta. Bisogna essere prudenti. Non ci si avventura in zone di guerra alla cieca».

Che cosa avete visto lungo la strada?

Lungo il percorso c’è una desolazione pazzesca. Abbiamo viaggiato per stradine isolate e fuori dal controllo dei gruppi combattenti, per evitare di incontrare bande armate. Per fortuna è andato tutto bene. Anche se la strada, paradossalmente, è più pericolosa della città sotto i bombardamenti.

Potete spiegare meglio?

Quando sei ad Aleppo sai che il pericolo sono i cecchini e i mezzi aerei che sganciano continuamente barili eslosivi sulla tua testa. In un certo senso è un pericolo calcolato, puoi prendere delle precauzioni. Ma quando si percorrono decine di chilometri non sai chi e che cosa puoi incontrare sulla strada. Sei fuori da un territorio controllato e in balia di chi c’è in giro in quel momento.

Prima avete parlato di barili esplosivi. Di che cosa si tratta?

La parte cosiddetta “liberata” di Aleppo, quella in mano ai ribelli, è continuamente sotto tiro da parte delle forze militari governative, che sparano e bombardano. Dall’alto di elicotteri militari russi sganciano delle bombe rudimentali, ma micidiali.

Si tratta di barili riempiti di esplosivo e rifiuti composti da parti metalliche. Vengono letteralmente spinti giù dagli elicotteri e impiegano circa 25 secondi per schiantarsi a terra, distruggendo tutto quello che trovano. Le case vengono letteralmente polverizzate e decine di persone alla volta finiscono sotto le macerie.

A quanti di questi bombardamenti avete assistito?

«Nei dieci giorni che siamo stati lì gli elicotteri passavano ogni 15 minuti circa. Per tutto il giorno e anche la notte», rispondono quasi in coro Ruben ed Enea.

Lagattolla: «Dopo qualche giorno ci fai l’abitudine, anche all’idea che il prossimo potrebbe essere per te. Di notte, senza corrente elettrica e senza luci – anche perché i generatori sono spenti – senti il passaggio dei velivoli; poi dopo qualche secondo senti il boato. E pensi: “Quando arriva il mio?”. È il vento a decidere da che parte cadrà il barile. L’aria può spostare la traiettoria anche di due o tre chilometri dal luogo dello sgancio. Quindi è solo questione di fortuna».

Discepoli: «Il cielo sopra Aleppo è ispessito da una coltre di smog e non si vede praticamente niente. Quando gli elicotteri arrivano te ne accorgi solo dal rumore. Spesso nemmeno li vedi: volano a quattromila metri d’altezza per evitare di essere abbattuti dalle armi dei combattenti, meno potenti di quelle dell’esercito di Assad.

Cammini per Aleppo e vedi gruppi di persone con la testa rivolta verso l’alto per intercettare gli elicotteri prima che sgancino le loro bombe. Questi ordigni sono fatti per terrorizzare: quando non ti uccidono ti mutilano il corpo.

Un paio di giorni fa sotto uno di questi bombardamenti, nel quartiere di Bustan al Qasr, è rimasto ucciso un bambino di 11 anni. Era una specie di mascotte tra il gruppo di ribelli che ci ha ospitati.

In quanti altri modi si uccide laggiù? Prima abbiamo accennato alla presenza massiccia di cecchini.

Vengono lanciati razzi Rpg e colpi di mortaio contro i civili che vivono nella parte “liberata”. Ma uno dei modi più ignobili è l’uso dei cecchini, che possono colpire fino a due chilometri di distanza.

Enea, hai avuto una brutta esperienza con almeno un cecchino. È un libro che ti ha salvato la vita…

Un libro e un Ipad. Stavamo percorrendo in motorino una strada di Aleppo. Ognuno dei due faceva da passeggero ad altri due ragazzi. Ad un certo punto ho sentito una lieve scossa su un fianco. Lì per lì ho pensato ad un sassolino o qualcosa del genere. Mi sono accorto di essere stato colpito da un proiettile di un cecchino solo quando sono sceso dalla sella: a quel punto mi sono reso conto di aver rischiato grosso. Avevo la giacca bucata, un Ipad rotto e le 450 pagine diL’alternativa nomade di Bruce Chatwin forato da parte a parte. Il tomo dell’Adelphi – che mi ha chiesto di comprare il libro – mi ha salvato la vita. Ma del resto (confessa divertito, ndr), lo dico sempre ai ragazzi: “Leggete ragazzi, leggete. I libri salvano la vita”.

Venderai il libro alla casa editrice?

Il libro resta con me È un autentico portafortuna.

Perché avete scelto la Siria, e in particolare Aleppo?

Siamo andati lì per seguire un progetto di video e foto reportage con alcuni media attivisti locali. Sono ragazzi tra i 20 e i 27 anni. Tutte persone che avevano un lavoro normale prima della guerra. Ma dopo ognuno di loro ha capito che per far vedere quello che accade laggiù, aveva bisogno di testimonianze visive.

Discepoli: «Dovevamo organizzare una mostra dal titolo Lens of young sirian, dedicata ai giovanissimi fotografi scomparsi a causa della guerra. Il progetto è nato nei miei scorsi viaggi in Siria: questo è stato il terzo. Questi giovani avevano bisogno di imparare la grammatica della fotografia. La motivazione per fare questo lavoro ce l’avevano già. Ora scattano delle foto davvero evocative: le uniche che il mondo vede giungere da Aleppo.

Avevamo trovato un caravanserraglio medievale come scenografia per la mostra, ma nelle settimane precedenti al nostro arrivo è stato bombardato e diverse persone sono morte. Quindi l’evento non si è più fatto».

Lagattolla: «Ho seguito Enea con la telecamera perché sto realizzando un documentario sulla guerra in Siria e volevo portarmi a casa la testimonianza di questi giovani media attivisti. Di fatto il documentario nasce insieme a loro, che ne sono i protagonisti e gli ispiratori. Lo sto producendo il Italia insieme a Filippo Biagianti.

Nonostante i bombardamenti avete parlato di uno strano silenzio intorno a voi. Che significa?

Mentre percorri alcune vie di Aleppo, dai nomi sinistramente evocativi come Via della Morte o Via delle Disgrazie, ti accorgi che intorno a te c’è un silenzio innaturale, carico di attesa per quello che potrebbe accadere da un momento all’altro. È una sensazione straniante.

Ma loro vivono così, sapendo che da un momento all’altro potrebbero non esserci più, ma con una grande carica di entusiasmo. Hanno imparato ad andare avanti anche in quell’inferno. Se vuoi questo è un grande insegnamento anche per noi, che invece restiamo lì solo pochi giorni e poi ce ne torniamo a casa, a leggere un libro comodamente sul divano.

Un silenzio assordante arriva anche dalle istituzioni della comunità internazionale. La Siria in ultimamente fa poca notizia e la guerra laggiù sembra dimenticata.

La comunità internazionale è di un’ignavia assurda. Le bombe cadono sulle teste dei civili, uccidendo donne e bambini. È una vergogna.

La forza per andare laggiù arriva dallo sdegno e dall’incazzatura. Ad Aleppo ho visto uomini e ragazzi trasformarsi in combattenti per difendere le loro case. Perché non vogliono andare via, non vogliono trasformarsi in profughi. (È Enea Discepoli a pronunciare queste ultime battute, ndr).

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