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Il calcio come guerra

Il racconto di uno dei più grandi scrittori contemporanei. Il video inedito degli scontri tra dimostranti e polizia in Brasile.

 

A demonstrator wearing a Guy Fawkes mask takes photos on her mobile phone during a protest in central Rio de Janeiro

 

In Brasile una parte della popolazione da alcuni anni contesta l’organizzazione dei mondiali di calcio. Proteste che sono aumentate man mano che si avvicinava il fischio d’inizio della coppa del mondo. L’apice si è avuto a poche ore dalla partita inaugurale (Brasile-Croazia) a San Paolo. Le cariche della polizia hanno ferito anche tre repoter internazionali. Poi, come per magia, il gioco ha monopolizzato i pensieri anche di una parte dei dimostranti. Da quando il mondiale è partito niente più proteste. O almeno così sembrerebbe.

Popoff ha deciso di proporvi un brano tratto da un libro di uno dei maggiori scrittori contemporanei dell’America Latina (“Il Calcio: luci ed ombre”). Un brano che descrive il calcio, a tratti paragonandolo a una guerra. E, insieme al brano di Galeano, di mostrarvi un servizio video della tv russa sugli scontri in Brasile. Scontri così poco mostrati dalle televisioni nostrane.

di Eduardo Galeano
(Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63)

Siete mai entrati in uno stadio vuoto? Dovete provarlo. Stare lì in mezzo al campo e ascoltare. Non c’è niente di più vuoto di uno stadio vuoto. Non c’è niente di meno muto degli spalti senza spettatori. A Wembley risuonano ancora le grida della Coppa del Mondo del 1966, vinta dall’Inghilterra. E se si ascolta meglio si sentono ancora i gemiti e i lamenti del 1953, quando l’Inghilterra perse contro l’Ungheria. Lo Stadio Centenario di Montevideo ancora emette i sospiri nostalgici degli anni d’oro del calcio uruguaiano. Al Maracanã si sentono ancora i pianti disperati per la sconfitta del Brasile nel Campionato del Mondo del 1950. Al Bombonera di Buenos Aires rullano ancora i tamburi di mezzo secolo fa. Dalle profondità della Stadio Azteca è ancora possibile ascoltare i canti tradizionali dell’antico gioco della palla messicana. Le terrazze di cemento di Camp Nou di Barcellona parlano ancora catalano. E gli spalti di San Mames di Bilbao continuano a parlare in basco. A Milano, il fantasma di Giuseppe Meazza continua a segnare reti nello stadio che porta il suo nome. La finale della Coppa del Mondo del 1974, vinta dalla Germania, continua a essere giocata giorno dopo giorno e notte dopo notte nello Stadio Olimpico di Monaco di Baviera. Lo stadio King Fahd in Arabia Saudita avrà pure marmo, oro e moquette, ma non ha particolari memorie da perpetuare.

Fuori da un manicomio, in una zona deserta di Buenos Aires, dei ragazzi biondi tirano calci a un pallone. «Chi sono?», chiede un bimbo al padre. «Sono matti», risponde il padre. «Sono dei matti inglesi».

Il giornalista Juan José de Soiza Reilly ricorda ancora quest’aneddoto della sua infanzia. In un primo momento il calcio sembrò un gioco da folli nel Rio della Plata. Ma a mano a mano che l’Impero cresceva, il calcio divenne merce di esportazione tanto quanto lo era un tessuto di Manchester, una ferrovia, un prestito da Barings o le teorie del libero scambio.

Arrivò qui sulla punta dei piedi dei marinai che giocavano nei vicoli del porto di Buenos Aires e di Montevideo, mentre le navi di Sua Maestà scaricavano coperte, stivali, farina e caricavano lana e grano per produrre ancora più coperte, stivali e farina dall’altra parte del mondo. I cittadini inglesi che sbarcavano – diplomatici, imprenditori e direttori di ferrovie e società del gas – formarono le prime squadre locali. Gli inglesi di Montevideo e di Buenos Aires posarono nel 1889 in una foto ricordo del primo campionato internazionale Uruguaiano, sotto un gigantesco ritratto della Regina Vittoria con gli occhi rivolti verso il basso, quasi in segno di dispregio. Un altro ritratto della regina dei mari era presente in’occasione della prima partita della squadra Brasiliana nel 1895, giocata tra quelli della British Gas Company e quelli della Ferrovia São Paulo.

Vecchie foto mostrano questi pionieri in tonalità seppia. Sembrano dei guerrieri addestrati per una battaglia. Una corazza di lana e cotone ricopriva tutto il loro corpo, per non offendere la vista delle signore presenti, che aprivano vezzosi ombrellini di seta e sventolavano fazzolettini ricamati. L’unica parte del corpo che si poteva vedere erano i loro visi seriosi, incorniciati da lunghi baffi ricurvi e impomatati e dei berretti. Ai loro piedi delle scarpe Mansfield.
Non ci volle molto perché il contagio si spargesse. Ben presto anche i gentiluomini locali iniziarono a giocare a questo pazzo gioco inglese. Da Londra fecero arrivare magliette, calzettoni pesanti e pantaloni che partivano dal petto e arrivavano fino al ginocchio. La palla divenne un articolo familiare per i funzionari di dogana che all’inizio avevano difficoltà a classificarla. Dalle navi arrivarono su queste lontane coste del Sudamerica anche i manuali di gioco, e con essi dei termini che sarebbero diventati di uso comune: campo, punteggio, rete, portiere, difesa, mediano, centrocampo, cannoniere, fallo, fuori area, fuorigioco. Un “fallo” significava dire che l’arbitro assegnava una penalità, ma il giocatore che aveva subito il fallo poteva accettare le scuse del suo autore, purché fossero delle scuse sincere espresse in inglese corretto, questo secondo il primo manuale di gioco che circolava a quei tempi lungo il Rio della Plata.

Nel frattempo, entrarono a fare parte del linguaggio comune dei Paesi caraibici termini come lanciatore, ricevitore, inning. Data l’influenza degli Stati Uniti, in questi Paesi s’iniziò a colpire la palla anche con una mazza di legno rotonda. Quando i Marines imposero con la forza la sovranità degli Stati Uniti in quest’area, accanto ai loro fucili tenevano sempre una mazza da baseball. Il baseball divenne per i Paesi caraibici quello che il calcio è per noi.

Nel calcio c’è una sublimazione rituale della guerra: undici uomini in calzoncini sono la spada di quella particolare zona, città o nazione. Questi guerrieri senz’armi o armature esorcizzano i demoni delle folle e ne riaffermano la fede: in ogni scontro tra due parti avversarie entrano in gioco vecchi rancori e vecchi amori che passano di padre in figlio.
Lo stadio ha torri e bandiere come un castello e una grossa linea/solco di demarcazione del campo. Al centro di questo, una linea divide i due territori avversari. Ogni lato del campo ha una porta, che sarà “bombardata” con palle volanti. L’area davanti alla porta è chiamata “zona di pericolo”.

Il rituale vuole che nel cerchio centrale i due capitani delle parti avversarie si stringano la mano e si scambino gagliardetti. L’arbitro fischia una volta, poi fischia di nuovo e la palla inizia a muoversi. Viaggia avanti e indietro, è intercettata da un giocatore che la porta con sé a fare un giro finché non è placcato e cade a faccia in giù. Il giocatore non si rialza. Nell’immensità della distesa verde, la vittima giace al suolo. Dall’immensità degli spalti tuonano delle voci.

La folla “avversaria” emette un ruggito amichevole: «¡Que se muera!», «Devi morire!», «Tuez-le!», «Mach ihn nieder!», «Let him die!», «Kill, kill, kill!».

Il calcio, metafora di guerra, a volte si trasforma in vera e propria guerra. Allora il termine “morte improvvisa” non è più solo il nome di un modo drastico di decidere una partita in parità. In questi giorni, il fanatismo legato al gioco del calcio ha preso il posto che prima era riservato al fervore religioso, all’ardore patriottico e alla passione politica. Come spesso accade nella religione, nel patriottismo e nella politica, anche nel calcio può esplodere la tensione e nel suo nome si commettono dei veri e propri orrori. Alcuni credono che gli uomini posseduti dal demone della palla abbiano la bava alla bocca: bisogna dire che è un’immagine abbastanza fedele del fanatico del calcio. Tuttavia, anche il più accanito tra i critici ammette che nella maggior parte dei casi la violenza non ha origine dal calcio, così come le lacrime non scorrono da un fazzoletto.

Nel 1969 scoppiò la guerra tra Honduras ed El Salvador, due Paesi piccoli e poveri dell’America centrale che per quasi un secolo avevano accumulato motivi per arrivare a uno scontro finale. Ognuno dei due incolpava l’altro per i propri problemi interni: gli honduregni non hanno lavoro? Sono i salvadoregni che vengono qua e si rubano il lavoro. I salvadoregni hanno fame? È colpa degli honduregni che li maltrattano. Entrambi i Paesi erano convinti che il Paese vicino era il loro nemico e i regimi dittatoriali che li governavano fecero di tutto per perpetuare questo errore.

Questa guerra è stata chiamata la “Guerra del Calcio”, perché le scintille che appiccarono l’incendio si sprigionarano negli stadi di Tegucigalpa e San Salvador. I problemi iniziarono durante le eliminatorie per la Coppa del Mondo del 1970. Ci furono risse, infortuni e anche molte vittime.

Una settimana dopo, i due Paesi ruppero definitivamente i rapporti diplomatici. L’Honduras espulse centomila contadini salvadoregni che da sempre coltivavano le loro terre. Carri armati salvadoregni attraversarono il confine. La guerra durò una settimana e morirono quattromila persone. I due governi, due dittature forgiate negli Stati Uniti in una scuola chiamata La Scuola delle Americhe, contribuirono ad alimentare l’odio reciproco, invece che a placarlo.

A Tegucigalpa c’era questo slogan: «Honduregno, non star fermo, prendi un bastone e uccidi il Salvadoregno». E in Salvador invece: «Diamo a quei barbari una bella lezione». I signori della terra e della guerra non versarono una goccia di sangue, mentre i loro due popoli poveri scalzi erano lì a scontrarsi e a uccidersi con furore.

Gira la Palla, gira il Mondo. Alcuni pensano che il Sole sia una palla che brucia e compie il suo lavoro in giro per tutto l’universo, dandosi il cambio di notte con la Luna, nonostante gli scienziati abbiano qualche dubbio al riguardo. Non c’è invece alcun dubbio nel fatto che il mondo stia da qualche tempo girando intorno ad una palla: la finale di Coppa del Mondo del 1994 fu vista da oltre due miliardi di persone, la folla più numerosa mai accomunata in un’azione nella storia dell’intero pianeta. È la passione più largamente condivisa: gli ammiratori della palla giocano nei campi, nei pascoli e per le strade, oppure stanno lì seduti con gli occhi fissi allo schermo mangiandosi le unghie, mentre ventidue uomini in calzoncini corrono su e giù in un campo verde inseguendo e calciando una palla, dimostrando così la loro fede e il loro amore.

Alla fine del 1994 tutti i bambini nati in Brasile furono chiamati Romario, e il manto erboso dello stadio di Los Angeles fu venduto come la pizza, a venti dollari la fetta. Un po’ di follia degna di una migliore causa? Un’attività primitiva e volgare? Un sacco di trucchi manipolati dai suoi proprietari? Io sono tra quelli che pensano che il calcio sia un po’ di tutto queste cose, ma è anche molto di più: una festa per gli occhi che lo guardano e una gioia per il corpo che lo gioca.

Un giornalista una volta chiese alla teologa tedesca Dorothee Sölle: «Come spiegare a un bambino la felicità?». «Io non la spiegherei», rispose. «Gli lancerei una palla e lo farei giocare».

Il calcio professionale sta facendo di tutto per uccidere questa gioia di fondo, che tuttavia continua ad esistere. Forse è per questo che il calcio continua a stupire. Come dice il mio amico Angel Ruocco, è questa la sua parte migliore – la sua ostinata capacità di sorprendere. Quanto più i tecnocrati tentano di programmarlo nei minimi particolari, tanto più il calcio continua a essere imprevedibile. Quando meno te lo aspetti, accade l’impossibile, il nano insegna al gigante una lezione e il piccolo uomo scuro dalle gambe storte fa sembrare ridicolo il giocatore dal fisico statuario.

Esiste un vuoto sorprendente: la storia ufficiale ignora il calcio. Testi di storia contemporanea pare non parlino di calcio, neanche di sfuggita, neanche per quei Paesi in cui esso è un simbolo primordiale d’identità collettiva.

Io gioco dunque sono: uno stile di gioco è un modo di essere che rivela quell’unico carattere di ogni comunità e afferma il suo diritto a essere diversa. Dimmi come giochi e ti dirò chi sei. Per molti anni il calcio è stato giocato in diversi stili, espressioni uniche della personalità di ogni popolo. E oggi credo che la preservazione della diversità sia necessaria più che mai. Viviamo un tempo di uniformità forzata, anche nel calcio. Mai il mondo è stato così disuguale nelle opportunità che offre e così uguale nelle abitudini di vita che impone. In questo mondo attuale pervaso dalla decadenza, chi non muore di fame muore di noia.

Per anni mi sono sentito come sfidato dalla realtà del calcio e ho tentato di scrivere qualcosa degno di questo grandioso rito pagano capace di parlare tutte le lingue del mondo e scatenare una passione universale. Scrivendo, avrei potuto realizzare con le mie mani quello che non ero mai riuscito a fare con i piedi: impacciato fino all’inverosimile, vergogna di tutti i campi da gioco, avevo l’opportunità di chiedere alle parole quello che la palla mi aveva negato.
Questo libro è nato da questa sfida, da questo bisogno di espiazione. Omaggio al calcio, celebrazione delle sue luci, denuncia delle sue ombre. Non so se il risultato è quello che desiderava il mondo del calcio, ma so che è cresciuto dentro di me e mi ha condotto fino all’ultima pagina. Ora che è nato, è tutto vostro. E sento in me quell’inevitabile malinconia che ci prende dopo aver fatto l’amore o alla fine di una partita.

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