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«Mi hanno seviziata perché testimoniassi il falso»

Secondo Juan E. Méndez, relatore Onu sulle torture, stupri e sevizie in Messico sono mezzi di investigazione. È accaduto anche a Claudia Medina Tamariz.

di Massimo Lauria

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Claudia Medina Tamariz, 43 anni, originaria di Veracruz, Messico. L’hanno torturata e stuprata in una caserma della Marina militare della città per estorcerle una confessione falsa. Suo malgrado questa donna è diventata il simbolo della lotta contro la tortura di Stato in Messico e nel mondo.

«Volevano che testimoniassi cose di cui non sapevo nulla, e siccome mi sono rifiutata mi hanno torturato. Quello che chiedo alle autorità messicane è che trovino le persone che mi hanno fatto questo e li processino. Fino ad oggi non è stato fatto nulla…». Prelevata con la forza dalla sua abitazione, detenuta senza mandato in una caserma della Marina militare messicana a Veraccruz e violentata perché confessasse il proprio legame con il cartello del narcotraffico Jalisco Nueva Generación. Si chiama Claudia Medina Tamariz, 43 anni, originaria di Veracruz, Messico.

Il suo rapimento e gli abusi da parte delle autorità messicane risalgono al 7 agosto del 2012. Ma la storia di Claudia è stata resa pubblica nei mesi scorsi, diventando simbolo della lotta contro le torture di stato in Messico, anche grazie ad Amnesty International che l’ha scelta come “testimonial” della campagna “Messico: fermiamo la tortura”. Ad oggi per Claudia e suo marito, rapito e torturato lo stesso giorno, quell’incubo non è finito. Anche se le accuse contro di loro sono cadute perché innocenti, i loro torturatori sono ancora liberi di abusare di altre donne e altri uomini. Ecco perché la raccontiamo ancora una volta: vicende come questa non devono essere dimenticate.

La storia di Claudia è comune a quella di tante altre donne, violentate per il gusto sadico di funzionari di stato corrotti. Secondo il giurista argentino Juan E. Méndez, relatore speciale per l’Onu sulle torture, in Messico c’è una situazione generalizzata di uso della tortura come strumento d’investigazione. In particolare questo avviene per i reati collegati con la criminalità organizzata. Arresti preventivi senza il mandato del giudice e abusi per estorcere confessioni vere o false che siano, è dunque una pericolosa consuetudine che va stroncata.

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«Io non sono l’unica, ci sono migliaia di donne che subiscono quello che ho passato io. Per questo ho deciso di denunciare, non voglio essere l’ennesima donna che rimane in silenzio per paura. Chiedo ad Amnesty International di accompagnarmi in questa battaglia. Io voglio giustizia», dichiara Claudia Medina Tamariz.

La donna ha raccontato di aver subito scariche elettriche, di essere stata picchiata, legata a una sedia e lasciata sotto al sole. Per oltre 36 ore è stata seviziata perché firmasse una confessione che non aveva neppure letto. Poi, il giorno dopo, è stata bendata e trasportata, insieme ad altri detenuti, presso l’Ufficio del procuratore federale. Solo lì si è accorta che la stessa sorte era toccata anche al marito e al cognato.

Stando ai risultati dell’inchiesta condotta da Méndez, l’uso della tortura come mezzo d’indagine si è radicalizzato con la costante militarizzazione della lotta contro il narcotraffico. Già sotto la presidenza di Felipe Calderón si è registrato un significativo aumento di queste pratiche. Polizia e soldati «hanno fatto ricorso alla tortura per ottenere una confessione sull’appartenenza alla criminalità organizzata. I detenuti vengono torturati affinché denuncino i presunti complici e dicano dove si trovano i nascondigli di armi o droghe. I giudici spesso accettano prove ottenute sotto tortura, violando il diritto a un processo equo».

Per sradicare la tortura di stato, secondo il giurista argentino – anch’egli vittima di tortura durante la dittatura militare nel suo paese – è necessaria la presenza di un avvocato durante l’arresto e gli interrogatori, ma anche il rispetto del «protocollo di Istanbul, che prevede un esame fisico e psicologico delle vittime per dimostrare che hanno subìto torture». Attualmente le prove mediche vengono effettuate anche a mesi di distanza dall’accaduto, rendendole inefficaci e umilianti per le vittime. Alcuni di questi esami, infatti, sono molto invasivi. Ecco perché Méndez insite nel chiedere che i rappresentanti dei diritti umani abbiano «accesso a tutti i carceri e gli ospedali locali per valutare correttamente le condizioni di detenzione».

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