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No Tav, parlano i sabotatori: «Terrorista è chi vuole il cantiere»

Le voci dei quattro militanti accusati di terrorismo nell’aula bunker torinese dove si svolge il processo. Parlano Chiara, Luca, Nicolò e Mattia

di Checchino Antonini

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Processo ai quattro militanti no tav accusati di terrorismo per il sabotaggio, nel maggio 2013, di un macchinario nel cantiere che non ha nemmeno rischiato di danneggiare in alcun modo le persone. Lo stesso non si può dire della presenza inquietante di veterani della guerra globale a militarizzare la valle. Per la prima volta la loro voce è risuonata nell’aula bunker di Torino dove va in scena il teorema della Procura contro il movimento di lotta più longevo e contagioso degli ultimi due decenni.Popoff le ha ascoltate dalle registrazioni di Radio Blackout di Torino.

«Ho preso parte al sabotaggio – esordisce Claudio – ecco svelato l’arcano». Il ragazzo svela come il linguaggio guerresco adoperato per descrivere le accuse contro lui e i suoi compagni derivi in realtà dalla cultura di chi formula quelle accuse, la cultura di chi sostiene una società violenta e gerarchizzata. «Qualsiasi cosa abbia a che fare con guerra e armamenti mi fa ribrezzo». Alla lotta contro il treno veloce il merito di aver rispolverato la pratica del sabotaggio «e di essere riuscita a distinguere il giusto dal legale».

Claudio rispedisce le accuse al mittente, «se c’è qualcuno che dimostra disprezzo per la vita altrui è da cercare nei miti che esportano “pace e democrazia” in giro per il mondo e che presidiano con professionalità e dedizione La Maddalena». «Per quanto riguarda le accuse di terrorismo – ha concluso il suo breve intervento – non ho intenzione di difendermi: la solidarietà che abbiamo ricevuto dal giorno del nostro arresto ha smontato a sufficienza un’incriminazione così ardita. Se dietro questa operazione c’è il tentativo di chiudere i conti con la lotta No Tav una volta per tutte, direi che è fallita miseramente».

Dopo di lui Chiara: «In quest’aula non troverete le parole per raccontare quella notte di maggio, usate le parole di una società abituata agli eserciti, alle conquiste, e alla sopraffazione. Gli attacchi militari e paramilitari, la violenza indiscriminata, appartengono agli stati e ai loro emulatori». Fiera e felice, così ha detto, di far parte di quella parte di umanità che si oppone a un’idea devastante di mondo. Anche Nicolò ha voluto rivendicare le ragioni di una crescita collettiva dentro le pratiche del movimento contro una grande opera e il ripudio del linguaggio adoperato per descriverle. Sono stati descritti come un «commando, parola quanto mai infelice», ha spiegato per una certa «allusione mercenaria». «La Val Clarea è mia amica dal 2011», da quando lui e i suoi compagni riempivano di terra, con le mani, i buchi scavati dalle ruspe del cantiere. «Se dietro quelle reti c’eravamo tutti, dietro queste sbarre un pezzetto di ognuno ha saputo sostenerci e darci forza».

Infine Mattia, a rivendicare «frammenti di vita preziosi insieme a tanti amici» «contro gli stessi blindati che pattugliano i monti afgani». Neanche a lui interessa la grammatica del codice penale, basterebbe il buon senso a comprendere il senso della lotta no Tav. Come gli altri compagni si riconosce nelle voci delle intercettazioni telefoniche prodotte dall’accusa ma respinge con sdegno l’ipotesi di essere parte di una catena di comando, di un organigramma. Il culto della guerra. indossa la toga di chi li accusa di terrorismo.

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