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Ebola c’è da quando le multinazionali distruggono le foreste

Quando le multinazionali deforestano in Africa sfrattano i pipistrelli portatori dell’ebola e li avvicinano agli uomini, diffondendo il virus.

di Monica Amendola

Repubblica democratica del Congo, 1980. Il naturalista francese Charles Monet e la sua compagna entrano in una grotta. Mai nessun essere umano prima di loro vi ha messo piede, perché la caverna è stata scavata naturalmente dagli elefanti in cerca di sale. È accessibile solo da quando è stata costruita l’autostrada che collega l’ex Zaire con l’Uganda, costruita negli anni Settanta dalle compagnie europee distruggendo pezzi di foresta pluviale. Monet e la sua compagna rimangono all’interno della grotta per l’intera giornata. Una settimana dopo, il francese inizia a manifestare i sintomi di una malattia sconosciuta. Nessuno è in grado di curarlo. Solo diverso tempo dopo viene riconosciuto in quei sintomi il primo caso di ebola.

Sintomi analoghi a quelli di Monet si sono manifestati nel marzo 2014 in Liberia all’interno di una piantagione di gomma gestita dalla compagnia statunitense Firestone Plantation. La vittima era la moglie di un impiegato, ed ha rappresentato uno dei primi casi nel Paese, che, dopo otto mesi, conta quasi diecimila contagi e cinquemila morti insieme a quelli dei confinanti Guinea e Sierra Leone. La piantagione è attiva in Liberia dal 1926, quando la Firestone decide di dedicare alla lavorazione della gomma quattrocentomila ettari di foresta liberiana. Essa è da sempre l’habitat naturale dei pipistrelli detti “da frutta”, la specie che oggi è riconosciuta come portatrice del virus dell’ebola, la stessa che popolava anche la grotta congolese in cui Monet aveva contratto la malattia nel 1980.

Il primo caso di ebola è stato raccontato nel 1994 dal giornalista scientifico statunitense Richard Preston nel libro “Area di contagio”. Con esso, l’autore volle lanciare un allarme: «La comparsa dell’Aids, dell’ebola e di chissà quanti altri agenti scaturiti dalla foresta pluviale sembra essere una naturale conseguenza della distruzione della biosfera tropicale. Sono virus, questi, che emergono da zone ecologicamente disastrate del pianeta. Molti di loro provengono dai margini erosi della foresta pluviale tropicale, oppure dalla savana, dove gli insediamenti umani stanno rapidamente aumentando». In poche parole, le malattie più devastanti dell’ultimo secolo sarebbero frutto dei comportamenti umani che modificano l’aspetto della natura circostante per adattarlo alle proprie esigenze. L’autostrada che collega il Congo e l’Uganda ne è un esempio. Non a caso, nel libro, Preston sottolineava che anche l’Aids si era diffuso pochi anni prima dell’ebola, sempre dopo la costruzione della strada, che aveva favorito quella vicinanza tra uomini e scimmie autrice della diffusione del virus Hiv.

Il 10 ottobre 2014, in un convegno sull’ebola tenutosi all’ospedale Spallanzani di Roma, il biologo Jordi Serracobo del Biodiversity Research Institute di Barcellona si è espresso in questi termini riguardo all’ebola: «A favorire l’inizio di questa epidemia sono stati fattori causati dall’uomo, come la deforestazione o i cambiamenti climatici, che hanno portato le popolazioni africane molto più a contatto con i pipistrelli». Infatti, nell’Africa occidentale i contagiati sono molti di più delle vittime delle epidemie precedenti: dopo otto mesi dal primo caso in Guinea, si contano quasi diecimila malati e cinquemila morti.

I cambiamenti di cui parla Serracobo avvengono eliminando sempre più ettari di foresta e trasformandoli in coltivazioni, miniere, o costruzioni come l’autostrada tra Congo e Uganda. Attività economicamente redditizie, il grosso delle volte gestite da compagnie europee. Non è un caso, forse, che tutti e tre i Paesi colpiti dall’ebola nel 2014 siano vittime abituali del fenomeno cosiddetto “land grabbing”, accaparramento delle terre, da parte proprio di multinazionali occidentali.

Prendiamo il caso della Liberia: quattrocentomila ettari di foresta sono diventati la piantagione della Firestone, affiliata alla statunitense Firestone Natural Rubber Llc, con sede a Indianapolis, fornitrice della Ferrari. Dal 1926, lavora la gomma e il legno in uno dei polmoni verdi dell’Africa. Altri duecentocinquanta chilometri di foresta, invece, sono diventati una delle tre linee ferroviarie del Paese, quella che lo collega con la Guinea, verso nord. Anche in questo caso, autrice della costruzione è una compagnia statunitense e svedese, la Lamco (Liberian American Mineral Company). Sarà un caso che i primi liberiani contagiati dall’ebola si trovassero proprio nella piantagione di gomma della Firestone, che oggi funge da struttura di ricovero e soccorso per i malati.

Sempre in Liberia, a maggio 2014 il clan Jogbahn è riuscito, dopo due anni di attività, a cacciare dai propri terreni la Epo (Equatorial Palm Oil), società inglese e malese fondata nel 2005 e specializzata nella produzione di olio di palma, per un’estensione di quasi centosettantamila ettari di terreno. Per riuscirci, il clan ha dovuto sporgere denuncia alla Rspo (Roundtable on Sustainable Palm Oil), la tavola rotonda nata nel 2004 in Svizzera per verificare la sostenibilità nella produzione dell’olio di palma. Storia analoga anche in Sierra Leone, dove alcune comunità locali hanno denunciato il gruppo belga Socfin, che ha deforestato per seimilacinquecento ettari allo scopo di coltivare le palme da olio.

L’olio di palma, tra l’altro, è già stato diverse volte incriminato da associazioni ambientaliste come Greenpeace, perché la sua produzione richiede di bruciare intere aree di foresta, con conseguenze ambientali dannose. Eppure, la sua produzione nel 2007 aveva toccato le ventotto tonnellate all’anno, provenienti soprattutto dall’Indonesia. L’olio di palma, infatti, è presente in molti prodotti di società come la Nestlé, la Barilla, la Mulino bianco, la Kraft, la Algida, la Coop. Oppure lo si trova nei prodotti della Procter and Gamble, L’Oréal, Ferrero, Unilever. Tutte multinazionali occidentali.

Sempre in Sierra Leone, altri quattordicimilatrecento ettari di terreno dal 2007 hanno dovuto cedere il posto a monocolture di canna da zucchero della società svizzera Addax Bioenergy. Nel Paese sono presenti anche la African Minerals, statale, ma quotata alla borsa di Londra, e parte del gruppo cinese Shandon Iron & Steel, che gestisce le estrazioni di diamanti dal sottosuolo. Oppure, la britannica London Mining, a capo delle miniere di ferro a nord est di Freetown, la capitale della Sierra Leone, che ogni anno, grazie all’attività estrattiva nella zona delle foreste, fattura quattrocento milioni di euro.

La Guinea non fa eccezione: primo fra i tre Paesi dell’Africa occidentale a registrare un caso di ebola nel 2014, è territorio della società Rio Tinto, australiana, la terza società mineraria del mondo, che nel Paese ha costruito oltre seicentocinquanta chilometri di ferrovie. Inoltre, anche questo Stato è gestito quasi interamente da compagnie europee, che regolano l’estrazione dei metalli presenti nel sottosuolo, soprattutto il ferro. Il caffè è invece sotto l’amministrazione di diverse compagnie europee fin dall’era coloniale, che lo coltivano nelle aree delle foreste in modo così intensivo da danneggiare l’ambiente circostante.

Come l’autostrada tra Congo e Uganda, anche queste modifiche all’ambiente africano sembrano essere un veicolo del virus che sta devastando la Guinea, la Liberia e la Sierra Leone. Perché, eliminando l’ambiente naturale dei pipistrelli, ne favorisce la maggior circolazione e un maggior contatto con gli esseri umani. Come scriveva Richard Preston in “Area di contagio”, con malattie come l’ebola «si può dire che la Terra stia creando una risposta immunitaria alla razza umana. Comincia, cioè, a reagire al parassita umano, al cemento che invade il pianeta». Chissà se le multinazionali ci avevano mai pensato…

"Area di contagio", scritto nel 1994 dal giornalista scientifico statunitense Richard Preston. L'autore ipotizza un legame tra la deforestazione dell'Africa e la diffusiobe dell'ebola.
“Area di contagio”, scritto nel 1994 dal giornalista scientifico statunitense Richard Preston. L’autore ipotizza un legame tra la deforestazione dell’Africa e la diffusiobe dell’ebola.

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