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Mafia Capitale, lo scandalo di chi si scandalizza

L’inchiesta Mafia/Capitale è  la dimostrazione che quello delle politiche sociali è un mercato come un altro. Tutto si trasforma in emergenza, anche i servizi sociali. E tutto cominciò con Veltroni

di Federico Bonadonna

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Dai commenti agli articoli su Mafia Capitale, uno degli elementi che scandalizza di più il pubblico è la notizia che presidenti di cooperative sociali sottraessero denaro pubblico destinato “ai più bisognosi”. Qualcuno scrive che è come rubare le elemosine in chiesa. Quest’ultima osservazione coglie involontariamente un punto essenziale che riguarda le politiche sociali, ridotte ormai a mera carità o a interventi emergenziali. Pochi conoscono e comprendono il significato di welfare state come diritto e pianificazione e non come elargizione residuale. Eppure l’Unione Europea fonda la sua identità politica, e i suoi spot televisivi, su questo straordinario pilastro di civiltà. Nei fatti il diritto all’assistenza sociale è ridotto alle sue retoriche o poco più.

Altro oggetto di scandalo è che le cooperative più grandi facciano cartello per escludere quelle più piccole. In realtà questa è solo la dimostrazione che quello delle politiche sociali è un mercato come un altro dove gli operatori cercano di accaparrare più quote possibili, tendendo al monopolio. La natura della merce non conta: che siano servizi per i Rom o spurghi di caditoie non fa differenza. Conta è il profitto. Per questo il mondo della cooperazione sociale vive da un paio di decenni una contraddizione intrinseca. Infatti, per sopravvivere in un mercato estremamente competitivo e che si differenzia in continuazione con i nuovi bisogni sociali emergenti, una cooperativa deve cercare di prendere quante più commesse pubbliche possibile. E spesso anche più del possibile. Deve cioè cercare di espandersi diversificandosi, pena la scomparsa dal mercato. Questa dinamica spiega la ragione per cui tante cooperative, snaturandosi, operino in settori così diversi tra loro.

Un esempio. Fino alla metà degli anni Novanta, i servizi per senza tetto erano delegati al volontariato (quasi sempre) cattolico. Non esistevano cooperative sociali interessate ad occupare quella nicchia di mercato perché non c’erano commesse pubbliche. I senza tetto erano un ambito residuale del vasto mondo delle politiche sociali dominato allora dai servizi per gli anziani, per i disabili e per i minori soli. Con l’aumento delle persone sulla strada dovuto a una serie di fattori reali, gli amministratori pubblici si resero conto di dover rispondere a una domanda di assistenza di bassa soglia che cresceva. E con questa cresceva la domanda di immobili adatti allo scopo. Il comune di Roma fu tra i primi ad aumentare l’offerta di servizi in questo senso. Alcune cooperative sociali compresero la necessità di diversificare i propri interessi e crearono al proprio interno un ufficio specifico dedicato ai senza tetto.

Fin qui nulla di male. L’aberrazione nasce con la politica degli sgomberi a tappeto che rispondono alla logica dell’emergenza inaugurata dal sindaco Veltroni. In Italia, l’emergenza è la forma per sopperire alla mancanza volontaria di pianificazione. Tutto si trasforma in emergenza, anche i servizi sociali che per loro natura non dovrebbero essere gestiti con criteri da protezione civile. L’emergenza è veloce, mentre i servizi sociali sono lenti per definizione. Il servizio sociale muove dall’analisi del bisogno vagliando, per prova ed errore, risposte sempre in divenire. Lì dove il servizio sociale scava nel profondo cercando di costruire collettivamente e nel rapporto operatore/utente le molteplici soluzioni, la logica emergenziale vola in superficie offrendo misure temporanee, spesso palliative, utili a mitigare la tensione del momento provocata dalla pressione mediatica. L’emergenza è oggi la risposta di una classe politica assoggettata alla ragione dei media. Sono i media a dettare l’agenda, a fornire la tempistica dell’intervento politico. Non è solo una questione di vanità del singolo personaggio. È l’informazione assurta a sistema che ha occupato il vuoto lasciato da una politica attonita che si contenta di rispecchiare la propria immagine in una banale fotografia sul giornale. Nulla è più efficace del criterio emergenziale per rispondere alle esigenze della comunicazione: dall’assistenza ai terremotati agli sgomberi dei campi zingari, dall’organizzazione dei funerali del Papa all’allestimento di strutture per l’accoglienza temporanea di senza tetto durante il periodo invernale, definito ancora oggi «emergenza freddo». Per comprendere quanto assurda sia la logica dell’emergenza nei servizi sociali, basta ricordare le parole don di Liegro: “L’inverno arriva ogni anno. Di quale emergenza freddo parliamo?”. Ecco, questa è la domanda. Chi ha interesse nell’emergenza sociale? La risposta non è di pertinenza di questa storia, ma della cronaca. Nera.

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