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Homein fondo a sinistraMa davvero Charlie Hebdo è islamofobo?

Ma davvero Charlie Hebdo è islamofobo?

Ora tutti “sono Charlie”: Nasdaq, Google e governo. Nella storia molti giornali non hanno saputo resistere alla pressione di una determinata situazione storica

da Parigi,  Jean-Patrick Clech*

Traduzione, per Popoff, Marco Zerbino

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Il dibattito si colloca a monte del “Fronte repubblicano” e della strumentalizzazione cinica, da parte del governo francese come da parte di Sarkozy e compagnia bella, dell’assassinio di dieci giornalisti, disegnatori e dipendenti di una redazione. Una frattura separa, in questi ultimi giorni seguiti all’attentato di rue Nicolas-Appert, due generazioni di militanti. Charlie Hebdo è una rivista satirica post-sessantottina, radicalmente irriverente e punto di riferimento per tutto un ambiente di sinistra, al netto di limiti e traversie della sinistra “reale”? O, al contrario, si tratta di un giornale che è andato nel corso degli anni alla deriva nelle acque torbide della “sinistra” repubblicano-laicista e islamofoba?

Del primo gruppo fanno parte, sin dalle prime ore seguite al massacro, coloro per i quali Charlie è stato innanzitutto il successore di Hara Kiri, il giornale satirico ferocemente antigollista, rimasto tale anche in occasione della morte del Generale; un settimanale che, dopo essere tornato in edicola nel 1992, ironizza tanto su Mitterand e la falsa sinistra quanto sulla consorteria di Chirac e soci, a partire da Charles Pasqua e dai suoi gendarmi; un Charlie Hebdo impietoso nei confronti del Partito Comunista Francese quando esso decide, nel 1997, di imbarcarsi con Jospin nell’avventura (disastrosa) della “gauche plurielle”; un giornale che denuncia le avventure militari francesi all’estero, sparando a zero contro l’estrema destra e le sue creature, gli sciovinisti e i reazionari di ogni sorta; un Charlie la cui redazione sostiene, almeno in parte e senza risparmiare critiche, la lista congiunta formata da Lutte Ouvrière e dalla Ligue Communiste Révolutionnaire alle europee del 1998.

Dopo l’11 settembre

Quella di Charlie era anche una redazione plurale, unita da una sorta di passato comune di sinistra. Ma i trascorsi passati non rappresentano mai una patente senza scadenza, né possono fungere da garanzia eterna di una linea editoriale affilata, sovversiva e libertaria. Anche Charlie è andato incontro a un’evoluzione, a contatto con le varie congiunture politiche e seguendo in questo l’esempio delle varie organizzazioni di sinistra e di estrema sinistra cui i membri della sua redazione erano legati. Una sinistra investita pesantemente dalle mutazioni geopolitiche internazionali successive all’11 settembre nel momento in cui il governo socialista-comunista-verde e il trio Jospin-Buffet-Voynet se ne vanno in guerra in Afghanistan al seguito di George Bush. Circostanza le cui ripercussioni all’interno del paese non hanno risparmiato neanche Charlie.

È per questo che, fra coloro la cui militanza è più recente e anche fra quelli che hanno smesso di comprare il settimanale in quel frangente storico, siamo in tanti ad avere in mente i dibattiti ospitati dal giornale nel 2002, ad esempio quello del giugno di quell’anno, in cui l’allora caporedattore Philippe Val se la prendeva furiosamente con Chomsky, reo di rientrare nel novero “degli americani che odiano di più l’America e degli ebrei che esercitano contro Israele una critica tanto più violenta nella misura in cui ritengono di poter sfuggire all’accusa di antisemitismo proprio in quanto ebrei”; o ancora quello del novembre 2002, nel corso del quale Robert Misrahi, scegliendo il campo Usa nella guerra contro il terrorismo, rendeva omaggio a Oriana Fallaci, e non certo alla giornalista autrice della biografia del grande poeta greco Alekos Panagoulis, quanto piuttosto all’autrice de La rabbia e l’orgoglio.

Il sostegno a Israele e le caricature

In seguito Val continua sullo stesso tenore e rincara la dose nel 2006, nei giorni dell’offensiva israeliana in Libano: “Se prendiamo in mano una carta geografica del mondo e ci spostiamo verso est, osserviamo che al di là delle frontiere dell’Europa, e cioè della Grecia, il mondo democratico finisce. Troviamo solo un piccolo coriandolo nel Medio Oriente: lo stato di Israele. Dopo di che, più nulla fino al Giappone. (…) Fra Tel Aviv e Tokyo regnano poteri arbitrari che hanno un unico modo per rimanere a galla, quello di tenere in vita, fra popolazioni all’80% analfabete, un odio selvaggio nei confronti dell’Occidente, per via del fato che esso si compone di democrazie”.

Qualche mese prima, poco dopo aver ristampato su Charlie Hebdo le caricature di Maometto originariamente pubblicate dal quotidiano conservatore danese Jyllands-Posten, Val era stato uno degli autori del “Manifesto dei 12”, che aveva firmato insieme a diverse personalità fra cui Bernard-Henri Lévy e Ayaan Irsi Ali, la sceneggiatrice di Submission, il cortometraggio anti-Islam di Theo Van Gogh. Nel “Manifesto”, pubblicato sulle pagine di Charlie, si legge che “dopo aver sconfitto il fascismo, il nazismo e lo stalinismo, il mondo si trova di fronte ad una nuova minaccia globale di tipo totalitario: l’islamismo”. Onde evitare danni, i firmatari vestono i panni dei pacifisti. “Questa battaglia” scrivono, “non verrà vinta con la forza delle armi ma sul terreno delle idee. Non si tratta di uno scontro di civiltà o di un antagonismo Occidente-Oriente, ma di una lotta globale che oppone i democratici ai teocrati”. Nel contesto dell’epoca, quello dell’occupazione imperialista dell’Afghanistan e dell’Iraq, il testo non inganna nessuno.

Compiacenza e complicità

Non è dunque la pubblicazione delle caricature di Maometto nel 2006 a rendere Charlie Hebdo un settimanale poco raccomandabile per gli antirazzisti, e neanche il fatto che essa sia avvenuta nel contesto particolare della “crociata imperialista” successiva all’11 settembre. Il problema non è la derisione sistematica dei musulmani, disegnati immancabilmente come dei barbuti, né quella delle donne in niqab, che ritorna sempre, numero dopo numero, insieme a quella degli ebrei e degli ebrei ortodossi, come anche dei cattolici tradizionalisti. Non c’è motivo per cui un giornale satirico di sinistra, che non ha mai fatto mistero del proprio anticlericalismo radicale e della propria battaglia atea, debba autocensurarsi. Né spetta all’estrema sinistra politica il compito di fare appelli per l’autocensura.

Il problema consiste invece nel fatto che, coscientemente o no e al pari di alcune componenti della sinistra radicale e dell’estrema sinistra francesi, Charlie ha trasformato la difesa della laicità in una nuova religione, procedendo poi su questa strada fino al venir meno di qualsiasi discriminante politica. Il problema nasce nel momento in cui la satira, nata come derisione su tutta la linea, si trasforma precisamente in una linea politica permeabile al sionismo in nome della lotta contro “l’oscurantismo musulmano”, diventando sempre più compatibile col passare del tempo con l’idea di un fronte “della civiltà” contro la barbarie.

Al punto di partenza

Oggi, nelle circostanze più tragiche e abominevoli, siamo di nuovo al punto di partenza. I giornalisti morti non possono più difendere il proprio giornale, la cui traiettoria non può essere ridotta interamente alla svolta successiva al 2001 e la cui storia non può essere letta unicamente alla luce del passaggio armi e bagagli alla cricca di Sarkozy del suo redattore Philippe Val. Ciò equivarrebbe, stavolta è il caso di dirlo, a fare una caricatura non solo di ciò che il settimanale è effettivamente stato per diversi anni ma anche dei suoi lettori. Eppure, la storia della stampa satirica di sinistra francese è disseminata di casi di giornali che non hanno saputo resistere alla pressione di una determinata situazione storica. È il caso, ad esempio, della Guerre Sociale di Gustave Hervé, un foglio antimilitarista diventato social-patriottico nel 1914 e in reazione al quale venne fondato Le Canard Enchaîné.

La Francia oggi è in guerra, stando a quanto ci dice il primo ministro Valls; in guerra “contro il terrorismo” e “per i nostri valori”. La borghesia ha già vinto le sue prime battaglie, conquistando anche un bel bottino. 88.000 sbirri, con tutte le televisioni e tutti i media nazionali dietro, sono stati mobilitati per dare la caccia a tre assassini ed eliminarli. Tutto fa brodo per far sì che la gente si dimentichi dell’uccisione di Rémi Fraisse. Parte del bottino è lo stesso Charlie Hebdo. Oggi, in effetti, tutti “sono Charlie”: dal Nasdaq di New York, passando per Google, che ha regalato al giornale 250.000 euro per il suo rilancio, fino al governo, che gli promette finanziamenti fino a un milione di euro. Ai fini del rilancio della politica dell’esecutivo, un giornale post-sessantottino è sicuramente meglio della Gazzetta Ufficiale.

*Insegnate di liceo a Seine-Saint Denis

 

 

2 COMMENTI

  1. Tutto vero, è allora ancora più importante però, proprio perchè quello che il prof. Jean-Patrick Clech è vero, non lasciare anche quest’ultimo patrimonio della sinistra all’avversario di classe!
    Come fare non so, ma credo che ciò stia più nelle possibilità dei compagni (lettori e no) francesi.
    Se da quì si può far qualcosa che ce lo facessero sapere, visto che – udite,udite! – Charlie Hebdo da questa settimana è “importato” anche in Italia al prezzo di € 3,50 in edicola.

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