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Quantitative easing, salvagente per banche

La Bce comprerà titoli di stato per far crescere l’inflazione. Ecco chi ci guadagnerà dal Bazzoka di Draghi, il Quantitative easing

di Luigi Pandolfi

QE cartoon

Passata la prima ondata di euforia (compresa quella dei mercati) per l’annuncio di Mario Draghi sul Quantitative easing (QE), è tempo di ragionarci un po’ su con più attenzione, andando, come si suole dire, in profondità. Il rischio, altrimenti, potrebbe essere quello di prendere fischi per fiaschi, pensando, ad esempio, che da marzo in poi saremo inondati da un fiume in piena di denaro che ci farà tutti più ricchi e contenti. Intanto, di cosa parliamo? Alla lettera il QE (“Alleggerimento quantitativo”) è un programma di acquisto di Titoli di Stato (e di altri strumenti finanziari) da parte di una banca centrale (in questo caso da parte della Bce), finalizzato ad immettere nuovo denaro nell’economia, ad incentivare i prestiti bancari verso le imprese e le famiglie, a far crescere l’inflazione.

Per adesso, però, rimaniamo ai Titoli di Stato, poi, brevemente, ci occuperemo degli altri asset finanziari che potrebbero rientrare nell’operazione. Forse che attraverso tale operazione la Bce andrà a finanziare direttamente gli stati e, dunque, i loro investimenti, la loro spesa pubblica? Nemmeno per sogno. Il trilione di euro (per l’esattezza 1.140 miliardi) che Eurotower ha deciso di pompare ad un ritmo di 60 miliardi al mese per 19 mesi (da marzo prossimo a settembre 2016) avrà come destinatario, in via diretta, ancora una volta il sistema bancario, come coi “Piani di rifinanziamento a lungo termine” (Ltro e TLtro) del 2011, 2012 e 2014. Ma cosa lega, precisamente, quei piani di rifinanziamento bancario all’attuale Quantitative easing? E le differenze? Semplificando al massimo (mi scusino gli esperti), possiamo dire che la Bce andrà a comprare gli stessi titoli che le banche acquistarono con i suoi soldi (concessi al tasso simbolico dell’1%) tra il 2011 ed il 2012, in coincidenza con la scadenza del prestito (3 anni). In questo modo le banche saranno “alleggerite” (è proprio il caso di dirlo) dei Titoli di Stato che hanno in pancia, senza alcuna garanzia che da ciò deriverà, ipso facto, un’apertura dei cordoni della borsa a favore di imprese e famiglie (non è stato così con i programmi Ltro e TLtro?).

D’altronde non bisogna dimenticare che la buriana per molte banche europee non è ancora passata, sono ancora molti gli istituti di credito segnati da gravi buchi di bilancio, sofferenze, crediti a rischio. Per alcune di esse è arrivato recentemente anche il giudizio solenne della Bce e della European banking authority, che hanno bocciato ben 15 grandi banche, di cui 2 italiane. Nel complesso stiamo parlando di una situazione nella quale i cosiddetti “rischi sistemici” (insolvenza o fallimento di intermediari finanziari che può determinare fenomeni d’insolvenza o fallimenti a catena di altri intermediari), con conseguente contagio su vasta scala, sono tutt’altro che scongiurati, è come un fuoco che cova sotto la cenere.

In questa cornice va letta anche la questione dei Titoli di Stato detenuti dalle banche. In Italia, dicevamo,tra il 2011 e il 2012, all’apice della crisi finanziaria, le banche nazionali facevano incetta di Titoli del Tesoro, lucrando sullo spread tra il tasso di interesse della Bce e quello gravante sui bond di Stato. Oggi nei portafogli delle banche italiane si trova circa il 65% degli oltre 1,7 miliardi di Euro di Titoli di Stato in circolazione, contro il 50% del 2010. Parliamo di cifre astronomiche, che recentemente hanno indotto alcune agenzie di rating ed altre Autorità a minacciare “declassamenti” per importanti istituti della Penisola. Motivo? Per la loro elevata concentrazione, un crollo dei prezzi di questi bond (Btp, essenzialmente), farebbe saltare l’intero sistema bancario e finanziario europeo (ed oltre). Dunque una prima necessità (per le banche): disfarsi il prima possibile, ed al minor rischio, di una quota significativa di Titoli di Stato attualmente detenuti.

Ed ecco che ritorna in campo la Bce, con altri mille miliardi di Euro freschi freschi. Soldi che andranno in primo luogo a sgonfiare la pancia delle banche dai Titoli di Stato accumulati, poi, tutto il resto si vedrà. Nel nostro Paese, in pratica, la Bce, stando al vincolo del 25% previsto per ogni Stato, potrebbe acquistare bond fino alla cifra astronomica di 400 miliardi. Le banche si “alleggerirebbero” del fardello dei Titoli attualmente posseduti, scaricando per l’80% il rischio di insolvenza (risk-sharing) su Bankitalia, rectius sui cittadini italiani. Delitto perfetto, verrebbe da dire.

Ci saranno benefici significativi per l’economia? E’ da escludere. Si fa presto a dire, infatti, che queste misure, oltre ad una discesa dei tassi di interesse (ma sono già bassissimi!) e ad un deprezzamento della moneta unica, determineranno automaticamente una ripresa dell’inflazione, quindi della domanda interna e dell’occupazione, avendo come riferimento ciò che è accaduto in Usa tra il 2009 e il 2014. C’è un ostacolo su questa via: le rigide regole di bilancio che impediscono agli stati europei di fare politiche espansive.

Negli Stati Uniti il successo del Quantitative easing è stato determinato, oltre che dalle particolari caratteristiche dell’economia (la maggior parte delle imprese americane si finanziano sul mercato), dal concorso della spesa in deficit dello Stato, che è arrivata a toccare il 12% del Pil (altro che 3% e pareggio di bilancio!). E’ impensabile, insomma, che questa massiccia iniezione di liquidità nel sistema possa avere effetti di ristoro sull’economia reale in una cornice di politica fiscale europea che ancora porta il segno dell’austerità. Ciò, al netto del comportamento che potranno assumere le banche da marzo in poi. Nel nostro Paese, poi, il beneficio diretto per le imprese sarà minimo, perché la maggior parte di esse si finanzia a credito, attraverso le banche, e non sul mercato, attraverso l’emissione di azioni ed altri asset finanziari.

Rimane, in conclusione, un ultimo – e più importante – problema: ammesso che le banche aprissero generosamente i cordoni della borsa, è ancora sul modello dell’economia drogata dal credito, quella che ha gonfiato negli anni passati le bolle immobiliari e speculative portandoci nel disastro attuale, che intendiamo scommettere? Non sarebbe venuto il momento di ripensare il nostro modello di sviluppo, investendo nella riconversione ecologica della nostra economia, nella cultura, nella difesa del suolo, nella prevenzione delle calamità, nel risanamento ambientale? Si può fare economia migliorando le condizioni di vita nei nostri territori, delle nostre città. L’uscita dalla crisi non può fondarsi sulla riproposizione di un modello economico “sviluppista” (non ce ne sarebbero peraltro nemmeno le condizioni) che ci ha lasciato in eredità non soltanto un grande debito finanziario, ma anche un gigantesco debito ecologico.

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