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Caso Moro, silenzi d’oro per un segreto di Pulcinella

«Non andai nel covo a confessare Moro». Un flop l’audizione di monsignor Mennini alla commissione d’inchiesta sul caso Moro presieduta dal pd Fioroni

di Maurizio Zuccari

Mennini

Il silenzio è una virtù di famiglia, anche se il segreto è di Pulcinella. Del padre, per mezzo secolo dirigente dello Ior, arrestato per il crac della Banca Privata di Michele Sindona, il giudice istruttore Bruno Apicella disse: «L’impressione che si è avuta nel corso degli interrogatori è che, se avesse potuto, Mennini avrebbe negato perfino di chiamarsi Luigi Mennini». E il fratello Alessandro Mennini, quando Roberto Calvi scrisse a Paul Marcinkus, presidente dell’Istituto opere di religione, facendo il nome dello Ior per il crac del Banco Ambrosiano in cui era funzionario, fece sapere alla moglie del “ragioniere”, come lo chiamava Sindona, che «quel nome non deve essere pronunciato nemmeno in confessionale». Così non poteva risolversi che in una cortina di fumo la deposizione dell’arcivescovo Antonello Mennini alla commissione d’inchiesta sul caso Moro presieduta dal pd Giuseppe Fioroni, oggi.

«Di un’eventuale confessione non avrei potuto dire nulla, né sui contenuti né sulla circostanze temporali e logistiche, ma non avrei difficoltà alcuna ad ammettere di essere andato nel covo delle Br. È che non ci sono mai stato», ha dichiarato monsignor Mennini che, su sollecitazione di papa Francesco, ha lasciato la nunziatura in gran Bretagna proprio per deporre a San Macuto davanti alla terza commissione parlamentare d’inchiesta su uno dei misteri ancora in grado di condizionare la vita politica del Belpaese. «Purtroppo non ho avuto la possibilità di confessare Aldo Moro nei 55 giorni del sequestro», ha dichiarato il nunzio apostolico, «nella coscienza dei miei doveri sacerdotali ne sarei stato molto contento. In ogni caso, se avessi avuto un’opportunità del genere credete che sarei stato così imbelle, che sarei andato lì dove tenevano prigioniero Moro senza tentare di fare niente? Sicuramente mi sarei offerto di prendere il suo posto, anche se non contavo nulla, avrei tentato di intavolare un discorso, come minimo di ricordare il tragitto fatto. E poi, diciamo la verità, di che cosa doveva confessarsi quel pover’uomo?». Un «pover’uomo sotto martirio», questo era Moro per il monsignore, e pure il «povero papa», Paolo VI, amico personale dello statista assassinato, che aveva chiesto allo Ior di mettere da parte 10 miliardi di lire per il riscatto nella speranza di salvarlo, altro non poté. Stretto com’era nella morsa del partito della fermezza che andava dalla Dc di Andreotti al Pci di Berlinguer che proprio la mattina del rapimento, quel 16 marzo di 37 anni fa, avrebbe annunciato, secondo Cossiga, di volersi smarcare dalla tutela morotea.

Tutti povericristi, dunque, per il monsignore che nulla aggiunge alle sue sette precedenti deposizioni davanti alle varie commissioni d’inchiesta sul caso Moro e solo su pressione del pontefice ha accettato di sedere ancora sul banco dei testimoni, a confessare il nulla dopo un decennio di silenzi (dal ‘95 si era opposto a ogni richiesta in tal senso). Eppure, la possibilità che il confessore di Moro nella prigione del popolo, l’uomo che gl’impartì l’estrema unzione prima d’essere ucciso, secondo Francesco Cossiga, e consegnatario delle lettere alla famiglia – di cui, all’epoca dei fatti parroco trentunenne, era molto amico – aveva suscitato più d’una speranza che qualche tassello dei misteri legati al rapimento di via Fani, e soprattutto all’insussistenza della sede come raccontato dai brigatisti, venisse finalmente alla luce. Ma il silenzio è e resterà d’oro ancora per un pezzo.

Al tempo dei 55 giorni del sequestro don Antonello era viceparroco nella chiesa di Santa Chiara in piazza dei Giochi Delfici, a poche centinaia di metri dall’abitazione di Moro e confessore di famiglia. Il prigioniero lo avrebbe scelto come tramite delle lettere alla moglie Noretta proprio per il suo profilo “defilato”, tanto che fu sempre Cossiga a rivelare, poco prima di morire: «Don Mennini ci scappò». E scappò pure qualcosa al giovane prete – ma fu l’unica volta – che nel primo pomeriggio del 9 maggio, quando la notizia del ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani era pubblica, parlando al telefono – evidentemente controllato – con un vescovo non meglio identificato, disse: «L’hanno ammazzato», aggiungendo che sarebbe andato da lui per metterlo a parte di «segreti». Segreti rimasti ben cuciti sulla bocca del monsignore con l’hobby dei porcellini d’india.Moro via Caetani

Sessantasette anni, romano, figlio del numero due dello Ior, dieci fratelli (c’è chi assicura tredici) – oltre al citato Alessandro, degni di menzione sono Paolo, amministratore dell’Apsa, di fatto la cassaforte del Vaticano, il nuovo Ior, e Pietro, procuratore capo a Chieti – studi dai gesuiti del collegio Massimo e diploma nella stessa classe di Mario Draghi e Luca Cordero di Montezemolo, Mennini è da più parti ritenuto oltre che confessore di Moro (così anche per monsignor Loris Capovilla, segretario di Giovanni XXIII), il canale “segreto” tra i brigatisti e la santa sede per tentare di salvare il prigioniero. Vescovo dal 2000, dopo la conclusione del sequestro venne destinato alla carriera diplomatica e mandato all’estero: in Turchia, Bulgaria, Federazione Russa, Uzbekistan, infine Gran Bretagna, dove dal 2010 ricopre la carica di nunzio, cioè ambasciatore della santa sede, e dove tornerà al più presto.

 

Bocche curiali cucite, restano i misteri. Che difficilmente potranno essere sciolti dalla terza commissione bicamerale d’inchiesta sul caso Moro – che entro l’aprile 2016 dovrebbe concludere i suoi lavori con l’ennesima relazione – benché a essa non possa più opporsi, come in passato, il segreto d’ufficio. A deciderne la rinascita, lo scorso ottobre, il dossier dei diessini Gero Grassi e Marco Carra sui misteri del caso Moro. Ultimi, in ordine di tempo, le rivelazioni dell’ex ispettore di ps Enrico Rossi sui due agenti dei servizi segreti sulla moto Honda, di sostegno al commando brigatista di via Fani la mattina dell’attentato, dov’è stata accertata la presenza del loro capo Camillo Guglielmi – ero lì invitato a pranzo, ammise il colonnello del Sismi, deceduto. E la testimonianza dei due artificieri che scoprirono il cadavere di Moro a via Caetani non alle 14, come si è sempre detto, ma alle 11. Quando Cossiga e gli altri arrivarono davanti al bagagliaio divelto col cadavere di Moro «sembrava che sapessero già tutto», disse uno dei due.

Chi sa è sicuramente Steve Pieczenik, il consulente americano chiamato al Viminale dall’unità di crisi a capo della quale era Cossiga, in qualità di esperto di terrorismo e sequestri in quei 55 giorni, che si fece vanto dell’ottima conclusione della vicenda. Per lui il procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Luigi Ciampoli, archiviando l’ultima inchiesta sul rapimento e l’uccisione del presidente Dc ha chiesto alla procura capitolina di aprire un fascicolo dato che esistono «gravi indizi di concorso in omicidio». Ma difficilmente l’emissario della Cia lascerà il suo dorato rifugio in Florida per sedersi sul banco degli imputati. Quanto agli altri, per farli parlare servirebbe una seduta spiritica, per dirla come Aldo Giannuli. O un’intercessione dello stesso Moro, proclamato “servo di Dio” e in procinto d’essere beato.

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