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Storia di un omicidio in una periferia meticcia

Questo libro racconta la morte di un uomo pakistano… In libreria, Il palo della morte, di Giuliano Santoro, pubblicato dalle Edizioni Alegre. Ecco come comincia

di Giuliano Santoro

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Questo libro racconta la morte di un uomo pakistano di nome Shahzad. Tutto ciò che leggerete si basa su fatti reali. Vi ho assistito coi miei occhi. O li ho raccolti da testimoni fidati, gente che c’era e che ha visto. Oppure li ho letti su libri, ritrovati in fotografie, scovati in filmati, reperiti in articoli. Tutte fonti che valuto essere attendibili. Questa non è una requisitoria. Mi interessa ragionare sul rilievo sociale e sul significato simbolico di questo evento. Per questo motivo, ove indicato, attribuirò alle persone direttamente coinvolte nell’omicidio nomi di fantasia. Considero che la riconoscibilità non abbia nessuna importanza ai fini di questo racconto.

Utilizzo soltanto un nome reale: quello di Shahzad, il tragico e incolpevole protagonista di questa vicenda. Colui il quale merita di essere ricordato. Cominciamo dall’accaduto. Potrei cavarmela in 343 caratteri, spazi inclusi.

A via Ludovico Pavoni, alla periferia sudest di Roma, un pakistano di 28 anni è stato ucciso da un ragazzo. Pare che l’extracomunitario fosse ubriaco e si fosse rivolto in modo provocatorio, sputando in faccia ad un minorenne romano e causandone l’esplosione di rabbia. Lo straniero è stato colpito dal giovane. È caduto per terra ed è morto.

Detto così, come lo leggiamo nelle brevi di cronaca e ce lo raccontiamo al bar, il fatto pare lineare, essenziale, impeccabile. Una notizia fredda, forse spietata ma non tendenziosa.

Eppure, tra le pieghe delle parole si nascondono trappole retoriche, automatismi linguistici e tic culturali che partecipano alla costruzione del nemico. Ci sono quattro artifici retorici, sottili e ricorrenti, che vengono usati in questo genere di notizie. Prima regola: usare più aggettivi che sostantivi. Seconda regola: prediligere il linguaggio astratto. Terza regola: meglio i verbi passivi. Quarta regola: scegliere la metafora giusta.

Si comincia dal luogo. La tragedia si è consumata nella notte tra il 18 e il 19 settembre del 2014 nel quartiere romano di Tor Pignattara. È periferia, Tor Pignattara? Si e no. Si situa al crocevia tra la gentrification del Pigneto e l’inizio del quartiere Casilino. È un quartiere che prende il nome da una via che inizia con una Torre. La battuta che circola nei quartieri-bene, per delimitare gli spazi e marchiare le zone di Roma, è questa: «Non bisogna andare a vivere in un quartiere che confina con una Torre». Lo stigma cade su Torre Maura, Tor Bella Monaca, Tor Fiscale, Tor Marancia, Tor Tre Teste, Tor Pignattara. Si sarebbe portati a ritenere che nella giungla delle torri può accadere che ci si debba far giustizia da sé. E che questo comporti dei rischi e degli eccessi. Del resto, la vittima è solo un pakistano. Non ha un nome. La nazionalità viene specificata con più solerzia quando si tratta di uno straniero proveniente da paesi poveri o d’emigrazione. La nazionalità della persona coinvolta in un episodio che passa dai lanci di un’agenzia stampa alle colonne di un giornale è essenziale? La provenienza di una persona costituisce di per sé una notizia? Se il riferimento al paese di origine si usa come sostantivo («un rumeno») invece che come aggettivo («un ragazzo rumeno») si conferisce implicitamente maggior peso alla nazionalità come dimensione determinante di una persona, come parte essenziale del suo carattere. È molto diverso. Gli aggettivi indicano una singola proprietà di un soggetto. I nomi tendono a definire un insieme, a generalizzare. Marcano una differenza tra noi e loro. Un aggettivo aggiunge un dettaglio. Un sostantivo traccia un confine. E la nostra storia è fatta di confini invisibili e arbitrari. Riverso sull’asfalto a Tor Pignattara c’è un pakistano. L’aggressore è un ragazzo.

La vittima forse se l’è andata a cercare? Il pakistano è ubriaco e provocatorio. Il ragazzo lo ha colpito. Laposizione dell’extracomunitario già di per sé pare fornireun’attenuante all’aggressore italico. Viene descrittacon linguaggio astratto, cioè con due aggettivi. L’azionedel giovane romano è narrata concretamente, con verbi descrittivi. Il pakistano è provocatorio, il ragazzo lo colpisce. Nel primo caso, ancora una volta, il racconto di una vicenda tende ad allontanarci dal contesto e a generalizzare e definire categorie (gli stranieri tendono ad essere «provocatori»). Nel secondo caso, i verbi descrittivi si riferiscono all’azione precisa, delimitano il campo.

È stata un’azione circoscritta che non ha a che fare con la natura di chi l’ha compiuta. Per di più, forse lo avrete notato, il verbo è impiegato in forma passiva: «Lo straniero è stato colpito dal giovane». Tra forma attiva e forma passiva c’è molta differenza.

Dicendo «un uomo ha stuprato una donna» o «la donna è stata stuprata» esprimiamo lo stesso concetto, ma nel caso della forma passiva si sottintende, più o meno consapevolmente, che la donna condivida una qualche «responsabilità» della vittima. La forma passiva viene utilizzata più di frequente quando l’autore del reato è italiano, dicono gli studi sul linguaggio dei media. Ci sono metafore che nascondono una visione del mondo e dei suoi rapporti gerarchici. Per i migranti viene utilizzata più spesso quella della «bestia» che ha l’effetto di disumanizzare, di alludere all’essere sub-umano del diverso: «L’africano ha attaccato come una belva inferocita». Accade anche in articoli che a una letturasuperficiale vorrebbero essere pezzi di denuncia: «Dentroquella casa gli immigrati vivono ammassati come bestie». Per gli italiani si parla più spesso di «esplosione»di un litigio, di un raptus, della violenza improvvisa e imprevedibile. Nel primo caso si tratta di una tendenza naturale, a maggior ragione ripetibile in quanto attinente alla «natura» del carnefice. Il raptus è invece al di fuori del controllo di chi lo compie, non interroga la responsabilità del carnefice ma allude a un episodio o a circostanze particolari che hanno indotto l’aggressore a comportarsi in un certo modo. Nel maggio del 2015 una tassista romana viene stuprata da un cliente. Gli ingredienti per un pezzo in cronaca nera ben condito ci sono tutti: c’è la città che al calare della sera cade in preda al terrore, c’è la donna che lavora di notte e che viene aggredita, c’è la caccia all’orco con tanto di identikit, con l’uomo che si aggira per le strade e che potrebbe colpire ancora. Poi si scopre che l’aggressore è un trentenne romano dall’apparenza normale, con faccia da bravo ragazzo e famiglia a casa. E viene automatico descriverlo in termini accomodanti, umani invece che belluini.

«Agli inquirenti è apparso lucido e pacato, con un carattere quasi remissivo», scrive qualcuno. C’è spazio anche per la mamma dell’aggressore, che racconta tra le lacrime ai cronisti «è un ragazzo che ha sofferto», «non è cattivo». Lui ha dato la colpa ai disservizi del trasporto pubblico e ha detto la parola magica, quella che rimanda a un’eccezione spiacevole invece che a una violenza inaccettabile: «Stavo aspettando l’autobus che non arrivava. Era un pezzo che stavo lì. Ho visto quel taxi e l’ho fermato. Volevo tornare a casa. Quando siamo arrivati, ho fatto un balzo in avanti con la scusa di controllare il tassametro. Non so cosa mi sia preso. È stato un raptus».

La manipolazione del contesto aumenta la diffidenza verso colui il quale viene descritto come diverso. Alcuni studi di psicologia sociale hanno provato a misurare quella zona grigia che si nasconde tra le parole e gli sguardi, che corre lungo pensieri sfuggiti dal lato oscuro della nostra coscienza e che affonda in secoli di diffidenza verso l’altro da noi. L’esperimento funziona così: ai partecipanti viene proposto di collaborare a un esperimento relativo al funzionamento neuronale, Dapprima, si fa leggere loro un testo. Il contenuto non viene scelto a caso. Si tratta di una notizia di cronaca nera scelta ad hoc, cioè scritta con un linguaggio che nasconde pregiudizi.

Le stesse persone vengono poi sottoposte al weapon paradigm. Viene cioè chiesto loro di osservare le immaginiche scorrono su uno schermo. Ancora una voltasi tratta di sequenze casuali, che però nascondono oggettidi diverso tipo. Nello specifico, viene assegnato aipartecipanti il compito di distinguere il più velocementepossibile tra armi da fuoco e oggetti inoffensivi. Nelfrattempo, volti di neri oppure di bianchi si alternano aimmagini di asciugacapelli e revolver. Ne deriva che lamanipolazione del contesto è fondamentale per attivareuno stereotipo negativo: i partecipanti che hanno lettola notizia di un crimine commesso da un immigrato riconosconopiù velocemente le armi quando sono precedutedal volto di un nero. Il volto dell’altro da sé producediffidenza, predispone all’allarme, produce pregiudizi e facilita stereotipi, ci mette in attesa di un oggetto offensivo.

Qualcuno dirà che si tratta di un esperimento con cavie umane da laboratorio, di un test costruito con condizioni artificiali e stimoli preordinati. Ma non viviamo forse una specie di weapon paradigm costante scorrendo i messaggi sui social network, passando in rassegna l’ordinario razzismo quotidiano dei nostri contatti Facebook, ruminando notizie, immagini, commenti e allarmi?

Per raccontare questa storia, dunque, abbiamo bisogno di comprendere cosa è successo senza isolare i fatti dal contesto in cui sono accaduti. Per ricostruire il contesto, bisogna spostarsi nello spazio e nel tempo. Bisogna annotare cosa accade nel frattempo, mentre Shahzad perde la vita. Bisogna scandagliare i dintorni, descrivere luoghi e pescare parole apparentemente innocue, provare a decifrarle e quando è il caso disinnescarle. È necessario ricostruire la catena degli eventi che ha portato a quella morte e che ha modificato quel frattempo.

Ad esempio. In quel giorno di fine estate del 2014 un parroco della provincia di Imperia legge sulle cronache locali una lettera aperta rivolta alla sua persona. «Don Antonello, vuole davvero far contagiare i nostri figli?». Quattordici migranti provenienti dal Nord Africa si trovano da qualche settimana alla casa di accoglienza di Prelà, nell’oratorio della Chiesa Nostra Signora dell’Assunta di Piani. I fedeli minacciano di boicottare il catechismo. «Siamo molto preoccupati per l’eventualità della propagazione di malattie che potrebbero contagiare i nostri figli, visto che si sono ripresentate a distanza di decenni patologie tipo scabbia e tubercolosi che in Italia ormai erano praticamente inesistenti, e non ultima la grave epidemia di ebola che si sta proprio diffondendo nei paesi d’origine di questi profughi». I «profughi» provengono da Prelà, cinquecento anime a pochi chilometri dal capoluogo. Da Prelà prende parola il sindaco leghista Eliano Brizio: «Coincide con il grande esodo, se non sbaglio, l’“emergenza malattie”, vedi malaria e tubercolosi. E la gente ha paura. Come dargli torto?».

Ancora. A Gorizia, sulla frontiera orientale dall’altro lato del paese, c’è una consigliera regionale leghista, Barbara Zilli, che parla di un Friuli Venezia Giulia «devastato da un’immigrazione insostenibile». «Il Friulì è ormai terra di conquista, dove emergono con avvilente evidenza le debolezze e i limiti delle nostre istituzioni». Zilli si dice «inorridita». «I friulani tentano di affrontare con decoro e dignità una situazione difficile, e devono subire l’onta di farsi prevaricare da persone indesiderate che hanno soltanto pretese. Arrivano sul territorio persone di ogni genere, anche sbandati, che abusano della nostra ospitalità per pugnalarci alle spalle». Le fa eco Nunziante Consiglio, senatore dello stesso partito: «Consigliamo ai cittadini italiani di dichiararsi profughi. È l’unico modo per ottenere tutele, vitto e alloggio gratis».

Profugo: sostantivo maschile e aggettivo [etimologia: dal latino profŭgus, derivato di profugĕre «cercare scampo», composto di pro-1 e fugĕre «fuggire»]. – Persona obbligata ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a guerre, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi, disastri ambientali e calamità naturali (in questi ultimi casi è oggi più comune il termine sfollato): il profugo Enea; i profughi del Veneto nella prima guerra mondiale; «dalla capitale si irradiavano per tutto il paese torme di profughi, senza pane e senza tetto, terrificati dalle rappresaglie» (Primo Levi); i profughi della Dalmazia e Venezia Giulia, durante e dopo la seconda guerra mondiale; le famiglie di profughi del Polesine, del Belice, del Friuli; accogliere, assistere i profughi; con uso più largo nel linguaggio poetico: «dove or io vi seguirò, se il Fato Ah da gran giorni ormai profughe in terra Alla Grecia vi tolse?» (Ugo Foscolo, Alle Grazie). Al profugo viene riconosciuto lo status di rifugiato. Il fenomeno ha assunto dimensioni rilevanti dopo la Seconda guerra mondiale, e per questo le Nazioni Unite hanno istituito nel 1959 un organismo per tutelare i rifugiati: l’Alto Commissariato per i Rifugiati. L’anno successivo, la Convenzione di Ginevra ha formulato la prima definizione organica del concetto, si riconosce come rifugiato colui che «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra».

Medici, ricercatori e scienziati cercano di porre un argine al fiume di parole che traccia una relazione del tutto arbitraria tra migrazioni e malattie: «Quando si parla di malattie, soprattutto di tubercolosi, che evoca tristi ricordi, paure irrazionali, stigma, bisogna stare attenti, perché l’informazione deve essere scrupolosa, attenta e non fuorviante e purtroppo sono in molti a parlarne in modo maldestro». E ancora: «Il maggior problema che quotidianamente dobbiamo affrontare è la paura di un rimpatrio forzato, che tiene lontani gli immigrati dai servizi sanitari e consente la diffusione dei bacilli nell’aria che respiriamo tutti. Potremmo dirle, infine, che questo è un problema che conosciamo da più di 20 anni, che affrontiamo con le conoscenze che abbiamo e le forze che la politica ci mette a disposizione».

La relazione tra migrazioni e contagio, tra malattie e sbarchi, viene evocata senza mezze misure anche da Beppe Grillo, comico e leader dell’opposizione parlamentare al governo, con un testo pubblicato sul suo sito. L’articolo si occupa del «ritorno di malattie debellate da secoli in Italia». «Per la tbc non esiste un vaccino che provveda una protezione affidabile per gli adulti, si trasmette per via aerea e le cure richiedono anni. Vogliamo reimportarla, reimportiamola! Ma facciamolo alla luce del sole, informando la popolazione che alla polizia non vengono forniti neppure gli strumenti minimi di profilassi.

Qui per evitare il tabù del razzismo arriviamo alla situazione grottesca degli Stati africani che chiudono le frontiere tra loro per paura del diffondersi dell’ebola, che ha 21 giorni di incubazione, mentre noi le lasciamo spalancate senza fare alcun accertamento medico sui chi arriva da chissà dove nel nostro paese». Secondo Grillo, «i triti e ritriti confronti degli italiani come popolo di migranti che deve comprendere, capire, giustificare chiunque entri in Italia, sono delle amenità tirate in ballo dai radical chic e dalla sinistra che non pagano mai il conto e da chi non vuole affrontare il problema». Dunque succede che Foad Aodi, presidente dell’Associazione Medici di origine Straniera in Italia e Comunità del Mondo Arabo in Italia inviti i politici «a non creare allarmismi non giustificati creando fobie nei confronti degli immigrati». Gli esperti parlano di «effetto migrante sano», una forma di selezione naturale all’origine per cui decide di emigrare solo chi è in buone condizioni di salute. Una volta in Italia gli immigrati, soprattutto in un primo periodo e se in condizione di irregolarità giuridica, vedono progressivamente depauperare il loro patrimonio di salute, a causa della continua esposizione ai fattori di rischio della povertà: precarietà assoluta, pessime condizioni abitative,

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