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Catalogna, sovranità popolare o geopolitica?

La Spagna unico Paese europeo a uscire dal fascismo per volontà dei vertici dello Stato. C’entra qualcosa con l’indipendentismo catalano?

di Andrea Zennaro

Le elezioni del 21 dicembre per il parlamento catalano hanno confermato la maggioranza assoluta a vantaggio delle liste favorevoli all’indipendenza della regione dal Regno di Spagna, nonostante il tesissimo clima intimidatorio in cui la consultazione si è svolta: la sospensione dell’autonomia regionale, i ricatti economici e internazionali, le città invase da decine di migliaia di agenti armati e un governo locale metà in carcere a Madrid e metà in esilio in Belgio non sono stati elementi sufficienti per piegare la volontà popolare, che si è espressa in maniera non certo unanime ma comunque chiara. La quantità reale di cittadine e cittadini catalani che vogliono dare vita a una repubblica indipendente non sarà esorbitante come poteva sembrare a caldo della feroce repressione del 1 ottobre, ma è evidente che l’intento del governo di Madrid di usare questo voto per soffocare le spinte secessioniste è clamorosamente fallito; anzi, il Partido Popular, principale responsabile della crescente tensione degli ultimi mesi, è precipitato al minimo storico e si ritrova ad essere l’ultima lista votata, con il 2% dei consensi catalani.

La repressione che ha colpito la Catalogna mostra uno Stato spagnolo non solo conservatore ma fortemente autoritario. E questo sorprende solo fino a un certo punto: la Costituzione spagnola, scritta nel 1978 durante la fase di transizione tra la dittatura franchista e la democrazia liberale, è il frutto di un delicato compromesso tra il bisogno di innovazione e più diritti dei numerosi antifascisti e la volontà dei franchisti di conservare lo status quo creato dalla dittatura. Il Re Juan Carlos II di Borbone, che con il beneplacito degli ex franchisti ha guidato la transizione dopo che per decenni non aveva mai ostacolato il regime, ha fatto approvare la Costituzione prima alle stesse Cortes (le Camere) che avevano sostenuto Franco e poi alla popolazione tramite referendum confermativo. Si tratta quindi di una Carta in parte permissiva e al tempo stesso autoritaria. Ne è un esempio il famigerato articolo 155, che ha permesso al governo centrale di revocare l’autonomia catalana e sospendere il governo locale per non aver adempiuto alla legge scritta a Madrid. È assai significativo che il referendum del 1978 abbia visto approvare la nuova legge fondamentale dello Stato in buona parte della Spagna ma bocciarla in Euskadi (la zona basca divisa tra Francia e Spagna), che ha un’altra cultura e un’altra lingua e da sempre rivendica l’indipendenza e che durante il franchismo ha subito la repressione più spietata (tant’è vero che l’Euskadi spagnolo è indipendentista e quello francese no). Il principale diritto negato da Franco alle regioni non castigliane è stato quello di parlare la lingua locale. La legge speciale antiterrorismo è stata l’unica risposta data alle rivendicazioni basche anche dalla Spagna postfranchista. Oltre all’Euskadi, anche Galizia, Andalusia e Catalogna hanno sempre chiesto maggiore autodeterminazione. Dunque la questione dell’autonomia locale è stata fin da subito il tallone d’Achille della giovane democrazia spagnola.

Oltre all’articolo 155 della Costituzione, anche il 116, che proclama lo “stato di eccezione” autorizzando l’impiego dell’esercito e la sospensione di ogni diritto individuale, mostra evidenti segni di un regime fascista non ancora del tutto cancellato. Lo stesso tribunale speciale antiterrorismo, da cui partono le accuse di «sedizione» che negli ultimi mesi hanno colpito il governo catalano, è un organo ereditato direttamente dal governo di Franco e da allora mai rivisto. Persino il Partido Popular al governo, di cui oggi Mariano Rajoy è l’esponente principale, è nato da ex franchisti e figli di franchisti che dovevano ridarsi un’aria presentabile dopo la morte di Franco.

La Spagna è stata l’unico Paese europeo a uscire dalla dittatura per volontà dei vertici dello Stato e senza alcuna resistenza di massa (a parte la guerra civile degli anni Trenta), creando una sorta di continuità indiretta tra il sistema precedente e quello successivo alla morte di Francisco Franco (non a caso gli ultimi quarant’anni sono chiamati noti tra la sinistra spagnola anche come «il regime del ’78»). Non è vero che dopo la fine della dittatura non ci sono stati prigionieri politici: numerosi indipendentisti baschi sono in carcere per la causa che hanno sostenuto (ad esempio, tante persone a Roma ricordano il caso di Lander Fernández, un militante basco rifugiato in Italia e poi estradato e riconsegnato alla Spagna con l’accusa di terrorismo ma senza prove fondate).

La Catalogna ha proprie tradizioni e una lingua occitana diversa dal castigliano. Questa regione fa parte del Regno di Spagna dall’11 settembre 1714, quando l’esercito di Felipe V di Borbone conquistò Barcellona dopo un lungo assedio: l’11 settembre è tuttora celebrato come Diada de Catalunya (giornata della Catalogna), in cui si ricordano le tradizioni locali proprie e la storia catalana, che solo in alcuni momenti ha coinciso con quella del resto della penisola iberica. L’ultimo 11 settembre, in vista del referendum che si sarebbe tenuto il 1 ottobre, Barcellona ha visto sfilare sotto le bandiere catalane oltre un milione di persone, cifra che corrisponde a circa i due terzi di suoi abitanti, senza contare le manifestazioni analoghe tenute nelle altre città catalane.

Oggi la Catalogna è la terza regione spagnola per produzione di PIL ma la tredicesima per redistribuzione delle ricchezze sotto forma di finanziamenti e servizi erogati da Madrid. Davanti alla richieste catalane, non certo nate l’altro ieri, il governo Rajoy ha mostrato il pungo di ferro dichiarando semplicemente che non ci sarebbe stato alcun referendum sull’indipendenza in quanto non previsto dalla Costituzione, ma non ha mai dato risposte politiche né cercato nessun dialogo. Forse con un lavoro politico serio e qualche concessione, il secessionismo avrebbe addirittura potuto perdere un eventuale referendum concordato. Invece il bilancio di questo ottuso braccio di ferro è stato di oltre ottocento feriti tra persone inermi che cercavano di votare e decine di arresti di rappresentati politici e della società civile.

C’è da dire che la Regina di Gran Bretagna, che in altri anni ha condotto un sanguinosa operazione militare contro il secessionismo irlandese, in tempi recenti ha permesso serenamente di svolgere un referendum sull’eventuale indipendenza della Scozia dal Regno Unito. Persino l’Iraq, che raramente brilla come esempio di democrazia, non ha ostacolato il recentissimo referendum sull’indipendenza del Kurdistan dal governo di Baghdad. Invece il Paese che nel XXI secolo ha cercato di impedire un referendum con le armi è la Spagna, che il portavoce del governo di Madrid definisce «una democrazia europea consolidata e prestigiosa».

A quanto pare, quando il premier spagnolo parla di «democrazia» non intende il rispetto della volontà popolare ma l’attenersi rigidamente alle legge scritta e in particolare alla Costituzione, nonostante si tratti di una Costituzione semifascista.

A questo punto occorre porsi alcuni interrogativi. Una Costituzione è un Dio che merita di essere passivamente venerato? E soprattutto, è legittima sempre e comunque per il solo fatto di giacere scritta su carta? Nel momento in cui una legge (tanto più se è la legge fondamentale dello Stato alla quale tutte le altre leggi dovranno attenersi) non è più riconosciuta da una consistente parte di popolazione di un dato territorio, quella legge è comunque valida al di sopra della volontà degli esseri umani o è da considerarsi di fatto decaduta? Non c’è una risposta unica né tantomeno scontata, ma è chiaro che la soluzione non può venire dalla polizia.

È bene tenere a mente che il governo Rajoy non ha la maggioranza nel Parlamento spagnolo e si regge sull’astensione del PSOE, suo storico rivale, rappresentando soltanto il 33% dell’elettorato complessivo del Paese, molto meno di quanti in Catalogna hanno votato le liste indipendentiste (un partito moderato, una sinistra repubblicana e una lista anticapitalista e femminista) che insieme hanno portato Carles Puigdemont alla presidenza della regione. Chi è dunque il meno democratico tra i due? È chiaro che la pura e semplice legalità non è un criterio sufficiente per stabilire la validità delle decisioni.

Peraltro la crisi del bipartitismo spagnolo è scaturita dai numerosi scandali di corruzione che hanno screditato tanto il PP quanto il PSOE, che oggi si riempiono la bocca di «legalità». Ed e proprio da questa crisi che è nato il partito di Ciudadanos, intransigente oppositore dell’indipendenza catalana e sostenitore del governo del PP che in Catalogna raccoglie i consensi dei non indipendentisti. Eppure l’unica illegalità contestata sia dai partiti “unionisti” che dal Re Felipe VI è il referendum indetto da Puigdemont e largamente sostenuto dalla società civile (oltre due milioni di persone a ottobre hanno votato a favore dell’indipendenza). Sembra che la legge spagnola valga solo per alcuni reati e per altri no.

Nei giorni successivi al referendum catalano di ottobre è circolata una provocatoria cartina fantapolitica che mostra come sarebbe l’Europa se tutte le istanze indipendentiste si concretizzassero in altrettanti Stati. Eppure la crisi che ha strangolato la Grecia negli ultimi anni (per citare solo l’esempio più eclatante) dimostra che il processo sovranazionale europeo che toglie ogni sovranità e potere decisionale a livello locale non è esattamente il meraviglioso magico mondo fatato della solidarietà fra i popoli che forse sognava chi ha iniziato la costruzione dell’unità del vecchio continente alcuni decenni fa. Senza bisogno di cartine fantascientifiche, un qualunque atlante storico mostra invece com’erano l’Europa e il mondo prima che prendessero piede queste spinte separatiste. Se la Catalogna non ha diritto di staccarsi dalla Spagna, allora la Bosnia, il Kosovo e il Montenegro dovevano rimanere parte della Serbia (quando per la precisione sono state proprio le democrazie europee a permettere la nascita dei nuovi Stati della ex Jugoslavia)? Donald Trump si è espresso per la permanenza della Catalogna sotto la Corona di Castiglia in nome dello stato di diritto; ma se le secessioni non devono avere luogo, allora gli stessi Stati Uniti, la cui esistenza è oggi unanimemente riconosciuta, sarebbero dovuti rimanere colonia britannica? E che dire dell’America Latina, allora riconosciuta dall’intera Europa e persino dal Papa come legittimo possedimento spagnolo, che ha ottenuto l’indipendenza in parte anche grazie all’intervento statunitense? Sarebbe dovuta rimanere anch’essa sotto il Regno di Spagna in nome dello stato di diritto allora vigente o è pienamente lecito che le situazioni geopolitiche possano cambiare?

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