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Cucchi, così iniziò il depistaggio dei carabinieri

Cucchi, chiusa l’indagine sui depistaggi, rischiano il processo otto carabinieri. Ecco le motivazioni delle accuse

La Procura di Roma ha chiuso l’indagine sui depistaggi relativi alla morte di Stefano Cucchi. «In questi momenti di difficoltà emotiva per la nostra famiglia è di conforto sapere che coloro che ci hanno provocato questi anni di sofferenza in processi sbagliati verranno chiamati a rispondere delle loro responsabilità. È un’enorme vittoria per la nostra famiglia e la nostra giustizia», commenta Ilaria Cucchi. Rischiano di finire sotto processo otto carabinieri tra cui il generale Alessandro Casarsa (nella foto in evidenza, all’epoca dei fatti capo del Gruppo Roma, ora in servizio al Quirinale) e il colonnello Lorenzo Sabatino (ex capo del nucleo operativo di Roma). I reati contestati, a seconda delle posizioni, falso, omessa denuncia, favoreggiamento e calunnia. L’atto di chiusura delle indagini, firmata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone e dal sostituto Giovanni Musarò, riguarda anche Francesco Cavallo (all’epoca dei fatti tenente colonnello capoufficio del comando del Gruppo Roma), Luciano Soligo (all’epoca maggiore e comandante della Compagnia Montesacro), Massiliano Colombo Labriola (all’epoca comandante della stazione di Tor Sapienza), Francesco Di Sano (all’epoca in servizio a Tor Sapienza), Tiziano Testarmata (comandante della quarta sezione del Nucleo investigativo) e il carabiniere Luca De Cianni.

Casarsa, all’epoca era colonnello e comandava il Gruppo Roma; Cavallo, tenente colonnello, era il suo addetto al comando e Soligo comandava, da maggiore, la compagnia Montesacro da cui dipendeva la stazione Tor Sapienza guidata dal luogotenente Colombo Labriola di cui Di Sano era un sottoposto. I cinque, secondo l’ipotesi, «in concorso attestavano il falso in un’annotazione di servizio sottoscritta da Di Sano», tre giorni dopo la morte di Cucchi in un reparto penitenziario del Pertini. Tutto ciò per minimizzare le condizioni di salute di Stefano che, dopo il pestaggio, era stato parcheggiato a Tor Sapienza in attesa dell’udienza di convalida dell’indomani. Si tratta dell’ormai famosa annotazione ritoccata dopo una prima versione in cui Di Sano aveva dato atto delle precarie condizioni di salute della persona arrestata, «riferiva di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare, veniva comunque aiutato dal personale della PMZ a salire le scale». L’intera scala gerarchica, fino al comandante di Gruppo, avrebbero fatto in modo che quella formulazione venisse tramutata in una più tranquillizzante, ma falsa, in cui si leggeva «il Cucchi … riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza». Non solo viene omesso qualsiasi riferimento alla difficoltà di Cucchi a camminare ma si introduce quello che sarà il cavallo di battaglia delle difese, la magrezza, per dimostrare che Stefano non sarebbe morto per le conseguenze delle percosse ma per la miscela tra condizioni di salute e stile di vita. Vittimizzazione secondaria. L’ex leader del Sap, sindacato che tributò la standing ovation ai quattro agenti che uccisero Federico Aldrovandi ora fa il senatore della Lega di Salvini e si sta impegnando in quella che definisce l’operazione verità su Cucchi. Gianni Tonelli sostiene che la nuova perizia affidata dalla II Corte d’Assise di Appello di Roma ai consulenti Anna Aprile e e Alois Saller nell’ambito del processo d’appello che vede imputati cinque medici del Pertini. scagionerebbe i carabinieri. Nel documento si parla di “morte cardiaca su base aritmica”: “L’attenta analisi dei dati necroscopici permette di escludere la sussistenza di lesività traumatiche intrinsecamente idonee a causare la morte (…) Il paziente Stefano Cucchi – si legge nella perizia – al momento del ricovero era soggetto in condizioni che lo ritenevano predisposto a sviluppare eventi aritmici fatali in virtù del suo stato di grave malnutrizione«. Così come nella perizia di I grado, Cucchi viene definito ad alto rischio e – si legge nelle conclusioni – “il protrarsi dell’ipoalimentazione/digiuno durante il ricovero al Pertini, con conseguenti bradicardia e ipoglicemia gravi, ha determinato il peggioramento delle condizioni generali fino al decesso”. La scoperta del pestaggio violentissimo e della catena di depistaggi viene archiviata dal leghista come «barbarie del processo mediatico» ma è Fabio Anselmo, legale sia nel caso Aldrovandi che in questo di Cucchi, a smentirlo leggendo la medesima perizia: «Se Stefano non fosse stato picchiato non sarebbe finito al Pertini» rilanciando sulla «responsabilità dei carabinieri nella morte di Stefano»: «A pagina 26, 27 e 34 di quest’ultima perizia (dopo il passaggio enfatizzato da Tonelli, ndr) si riconosce il nesso causale dei traumi subiti che hanno contribuito allo stress e alle aritmie cardiache per le quali sarebbe morto Stefano, esclude anche l’epilessia. Se non fosse stato picchiato dai carabinieri, sarebbe ancora vivo. C’è negligenza dei medici, non lo abbiamo mai negato, ma si sovrappone. Abbiamo una pletora di testimoni che hanno visto Stefano in palestra che si allenava, l’impiegato comunale, quello da cui è andato a prendere la torta per il compleanno. Al di là di questo, se era troppo magro, faceva comunque una vita normale. Nel caso in cui venga picchiata una persona che fa uso di farmaci, con un fisico indebolito, se gli spacchi la schiena lo mandi in ospedale». «Un trauma alla colonna vertebrale non può essere causa di morte, lo abbiamo sempre detto – continua il legale della famiglia Cucchi – era in palestra il 15 ottobre alle 19, si era visitato prima di andarci. Basta dire fesserie. Quello che è successo in ospedale è colpa dei carabinieri: l’omicidio preterintenzionale dice che se io attento alla integrità fisica di una persona, rispondo di tutto quello che gli succede. I periti scrivono che il suo cuore si è fermato anche per il dolore, per i traumi subiti. Ci vuole qualcuno in malafede per non capirlo». E a proposito della pagina 22 citata dall’ex leader del Sap ora in servizio nella Lega («l’attenta analisi dei dati necroscopici permette di escludere la sussistenza di lesività traumatiche intrinsecamente idonee a causare la morte»), Anselmo ribatte: «A noi di questa perizia non ce ne può fregar di meno. Vogliamo dire che scagiona i carabinieri? Eppure viene detto che l’aritmia viene provocata da un complesso di fattori, come pure il dolore. I traumi subiti causano anche aritmia, Stefano non si è suicidato, voleva parlare con l’avvocato, ha scritto una lettera. Anche se lo avesse fatto di sua volontà, sarebbe colpa dei carabinieri, perché se non lo avessero pestato sarebbe ancora vivo perché non sarebbe mai stato ricoverato. C’è il caso di scuola di giurisprudenza: uno caduto durante una rissa si rompe una gamba, viene ricoverato all’ospedale di Comacchio dove gli fanno un gesso troppo stretto, dopo 20 giorni gli parte un embolo e muore. La persona che l’ha picchiato viene condannata per omicidio preterintenzionale. Se metto le mani addosso a qualcuno, qualsiasi cosa gli accade ne rispondo. Chiaramente anche i medici sono responsabili, ma è una delle concause». Per la cronaca: anche all’epoca del caso Aldrovandi, il portavoce della polizia, Roberto Sgalla, sosteneva che la perizia scagionava i poliziotti. Era lo stesso personaggio che disse che le molotov erano state ritrovate alla Diaz e che l’agente Spaccarotella, condannato per l’omicidio Sandri, aveva sparato in aria.

Tornando alle accuse dell’inchiesta per i depistaggi: Casarsa, Cavallo, Soligo e Colombo Labriola avrebbero falsificato anche l’annotazione di servizio dell’altro piantone, il carabiniere Gianluca Colicchio che però non la volle firmare e non ha riconosciuto come sua la sigla in calce all’atto. «Il Cucchi suonava al campanello di servizio della cella e dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire pure di epilessia» diventava così che il Cucchi manifestava «uno stato di malessere generale, verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi della scomodità della branda d’acciaio» facendo magicamente sparire ogni considerazione legata ai dolori.

Sabatino, colonnello, comandante operativo dei carabinieri di Roma e delegato del comandante provinciale all’acquisizione di una serie di atti sugli adempimenti successivi all’arresto, e il capitano Testarmata, comandante della IV sezione del nucleo investigativo dei Cc, delegato di Sabatino, s’erano accorti che le deposizioni erano farlocche, “ideologicamente false”, ma fecero gli indiani, secondo l’ipotesi del pm Musarò, guardandosi bene dal denunciare la faccenda. Testarmata si sarebbe anche accorto che il registro del fotosegnalamento della compagnia Roma Casilina era stato sbianchettato ma lo lasciò lì nonostante fosse stato sollecitato ripetutamente a prelevarlo da due ufficiali, il maggiore Grimaldi e il tenente Beringheli, uno che comandava la compagnia, l’altro il nucleo operativo della stessa che avevano evidenziato la necessità di eseguire accertamenti tecnici sull’originale del predetto registro per individuare il passaggio di Cucchi nella sala Spis, quella del fotosegnalamento. Anche in questo caso Testarmata si sarebbe fatto gli affari suoi sulla scoperta dello sbianchettamento sul nome di Stefano. Condotte, «poste in essere con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso» che aiutavano a «eludere le investigazione delle autorità» «i carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia che erano responsabili di avere cagionato a Stefano Cucchi, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, le lesioni che nei giorni successivi ne determinavano il decesso».

Infine Luca De Cianni, redigendo un’annotazione di polizia giudiziaria in merito a un incontro con il carabiniere Casamassima, nel maggio 2015, attestava falsamente, come si legge sull’Acip, l’avviso di conclusione indagini preliminari, gli aveva riferito che alcuni carabinieri appartenenti alla stazione Appia avevano «colpito con schiaffi Stefano Cucchi ma che non si trattava di un pestaggio», che Cucchi s’era procurato lesioni più gravi con gesti di autolesionismo, «battendo più volte il viso a terra e al muro in cella», che Casamassima avrebbe chiesto soldi a Ilaria Cucchi in cambio di aver fornito «dichiarazioni gradite». Ora gli indagati hanno venti giorni per eventuali atti o memorie, depositate l’esito di indagini difensive, chiedere di essere interrogati o depositare dichiarazioni. Intanto il processo per l’omicidio riprenderà il prossimo 27 marzo. Riccardo Casamassima, a rischio di mobbing, e la moglie, Maria Rosati, entrambi carabinieri, con le loro dichiarazioni hanno permesso la riapertura del processo.

 

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