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Che ne sarà del Noi/ Solidarietà, danno collaterale

Solidarietà, danno collaterale del coronavirus. Nell’emergenza le reti di sostegno e cura sono in crisi

L’identità individuale si fa labile nella quarantena, resa fragile dall’interruzione in atto del lavoro di relazione. La cura delle reti sociali, di ciò che ci unisce agli altri, è oggi difficile e ci lascia monchi nella nostra solitudine. Se il nostro essere uomini e donne è determinato dal trovarci al centro di una rete di affetti e la nostra identità è un moto continuo e dinamico di onde che si susseguono prodotto da chi ci circonda, oggi rischiamo di sprofondare nelle acque stantie di una palude. Nonostante il rumore di fondo prodotto dai dispositivi connessi che ci circondano. Essere soli e avere paura sono la stessa cosa.

La solidarietà, quella che ci porta ad agire per altri che non siano i nostri parenti o amici ma per persone con le quali non abbiamo un vincolo precostituito dalla nascita o dai luoghi che frequentiamo normalmente, è un creare reti sociali estese, che arricchiscono l’identità individuale e il contesto in cui viviamo: la geografia delle relazioni si estende sovrapponendosi al paesaggio urbano e gli dona significato, fino a coprire un paese intero; il mondo intero.

Esiste un rapporto tra diffusione delle forme di solidarietà e parallelo sviluppo della società moderna: l’impersonalità sottesa alle logiche del capitalismo e dello Stato e la razionalità scientifica che le sostengono hanno permesso (e ne sono state a loro volta influenzate) la nascita di reti sociali tra individui che vanno ben al di là del contesto locale.

Questo ha favorito la creazione di connessioni astratte tra persone molto lontane, non solo o non tanto geograficamente: lungo queste direttrici si sviluppa una coscienza più globale del nostro essere umani, non più limitata alla famiglia e alle persone più vicine. Dentro queste connessioni viaggiano la conoscenza e il sapere sociale.

Le reti di solidarietà sono segnate dalla scelta: quella di costruire nodi di relazione che riescano a attraversare gli spazi sociali chiusi dalle differenze di classe o culturali, per esempio. Su di esse si costruisce la politica, intesa come cura di ciò che è comune e attraverso di esse possono viaggiare e sfogarsi le correnti negative della sofferenza e del bisogno, attenuate dalle energie inverse che possono nascere dal calore della relazione e dell’impegno.

Il lock down al quale siamo sottoposti a causa del virus recide questi legami in modo violento: siamo impossibilitati a muoverci e a curare “in presenza” le nostre relazioni con amici e parenti e tanto più sono in pericolo le reti di solidarietà larghe che sono parte integrante della nostra socialità.

Le conseguenze rischiano di essere devastanti e già ora cominciano a misurarne gli effetti le fasce più deboli della popolazione: gli anziani, i profughi chiusi nei centri di accoglienza senza sostegno e informazioni, i senza fissa dimora abbandonati per le strade delle città e multati perché non se ne stanno a casa, i carcerati, i bambini che – al contrario dei cani – non possono essere portati a spasso. E tutti coloro che non hanno gli strumenti culturali, il capitale sociale per capire e affrontare questa crisi globale; quelli che temono per il proprio lavoro e il futuro dei loro figli. Ma anche chi sta meglio e si gode il sole sul suo balcone è costretto a convivere, solo, con la propria paura.

Le conseguenze della pandemia sono fisiche – i tanti morti, le tante famiglie che hanno perso una persona cara – e cominciamo a misurare quelle economiche e sociali. E poi ci sono quelle difficilmente quantificabili: la solidarietà perde pezzi, il collante che ci tiene insieme si sta seccando e i tasselli più deboli del mosaico che abbiamo costruito rischiano di staccarsi lasciando degli orrendi buchi. Le comunità si chiuderanno su sé stesse, diventeranno più ciniche di quanto non fossero già, respingenti. Le reti sociali monche creeranno individui monchi.

Vedo tante amiche e amici, attiviste/i, volontarie/i costrette/i a stare con le mani in mano, a telefonare ansiosamente a chiunque possa dare loro notizie del tal profugo, del senza fissa dimora o del minorenne chiuso in comunità. Si scrivono lettere per chiedere ai comuni di attivare misure straordinarie, si fanno pressioni a distanza, si cerca in qualche modo di mantenere la vicinanza. Ma se già prima era una fatica di Sisifo, ora la situazione è diventata disperante.

La solidarietà è una vittima collaterale del lock down. Possibile che non ci siano altre soluzioni che permettano almeno in parte di mantenere vive le reti di cura pur rispettando le indicazioni necessarie a fermare la diffusione del virus? Si è parlato molto del cinismo britannico nell’affrontare l’emergenza, eppure lì la scelta di non bloccare completamente il movimento delle persone ha lasciato aperta la possibilità di una solidarietà dal basso: in ogni parte del Paese stanno nascendo dei gruppi di volontari per portare aiuto alle fasce più deboli della popolazione, riuniti attorno alla piattaforma COVID-19 Mutual Aid UK.

E in Italia? L’iniziativa è lasciata soprattutto alla buona volontà dei comuni e ci sono naturalmente associazioni e cooperative impegnate nel sostegno a varie fasce della popolazione che – tra mille difficoltà – sono ancora attive. Esiste una piattaforma, COVID-19 Italia, che cerca di informare su tutte le iniziative presenti sul territorio per rispondere all’emergenza.

Sarebbe necessario però un progetto globale di mobilitazione, che possa coinvolgere tutte le cittadine e i cittadini, per dare sollievo a chi ne ha più bisogno. Non so se sia possibile e un ostacolo importante all’auto-organizzazione della cura sta nelle decisioni politiche nazionali che sono state prese in questi giorni, che sembrano al momento più volte a reprimere che a curare. Il rischio è però che in questo modo la democrazia muoia dal di dentro.

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