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HomecultureSpiegare è meglio che punire. A scuola come in quarantena

Spiegare è meglio che punire. A scuola come in quarantena

Didattica online e responsabilità individuale ai tempi del coronavirus

di Mario Fillioley*

Più o meno dieci minuti dopo l’avvio della prima videolezione, quindi ormai quasi due settimane fa, i miei studenti di prima media hanno trovato il modo di disattivarsi il microfono l’uno con l’altro.

Dopo altri dieci minuti, erano diventati capaci di espellersi a vicenda dalla videochiamata.

Ovviamente, è diventato lo scherzo preferito, il modo per passare il tempo mentre ci si annoia con cose tipo il superlativo relativo dell’aggettivo qualificativo.

Niente di diverso da quello che succedeva in classe con le gomme o gli elastici o le bottigliette d’acqua: dispettucci che servono a creare un diversivo.

Dopo altri dieci minuti, erano in grado di disattivare il MIO microfono ed espellere ME dalla classe.

Questi ragazzi hanno una certa velocità d’apprendimento, sono sinceramente ammirato, ho pensato tra me e me. Non è vero, ho pensato: ma io questi adesso li ammazzo. Però niente, alla fine che ci vuoi fare?

Del resto, il loro modo di imparare è diverso dal mio, che magari mi metto là a cercare tra le varie voci di un menu a tendina quale possa essere quello corrispondente al comando che cerco. Per loro, cercare un comando significa cliccare a caso ovunque, abbassare tutte le tendine di tutti i menu e premere il premibile finché non succede qualcosa.

Loro dicono che fanno prima così, anche se a me non pare: è un metodo che prima di raggiungere l’efficacia genera molta frenesia, movimenti a vuoto, diciamo che quando fanno così sembrano in preda al panico, e anche dopo che trovano il tasto giusto non è che si ricordino subito come hanno fatto, per cui altri movimenti convulsi, altri tentativi veloci, insomma non sembra gran che utilizzabile come modello didattico.

Durante le videolezioni è comune che girino per la stanza i genitori del ragazzo, per cui dopo questi episodi ho ricevuto diverse mail o messaggi di scuse: ci è dispiaciuto che si comportassero così, faremo in modo che non succeda più ecc.

Sono fortunato: quest’anno ho ragazzi vivaci, che per fortuna sono vivaci in tutti sensi, e genitori molto collaborativi, oltre che squisitamente educati.

Dei genitori, mi colpisce, sia a ricevimento durante l’anno, sia durante le mail e i messaggi che ci scambiamo in questo periodo, il ricorrere frequente di osservazioni del tipo: professore siamo rimasti colpiti dalla sua pazienza, e ci siamo chiesti, ma come fa?

Effettivamente, tutti i giorni, in videochat come in classe, me lo chiedo pure io: ma come faccio? Boh.

Un po’ è carattere: la pazienza, uno, non se la può dare.
Un po’ è esercizio: magari la pazienza ce l’hanno tutti, però non tutti la esercitano.
Un po’ è che spazientirsi non conviene: sì, magari sfoghi la tensione (e serve, per carità), e magari sfogandoti mostri i denti e comunichi ai ragazzi che essere presi in giro non piace a nessuno e che stanno facendo una cosa davvero fastidiosa, però non risolvi molto, o quantomeno non risolvi la cosa in modo definitivo.

Passata la furia dello sfogo, riprenderanno a giocare “mutandosi” i microfoni (loro dicono così, dall’inglese To mute), fino a quando il tuo nervosismo non raggiungerà una nuova tracimazione, e loro subiranno un nuovo sfogo.
Meglio pazientare, quindi, spiegare allo sfinimento che il giochino finisce per stufare, sottrae tempo a tutti, ci si ritorce contro, ripeterlo ad libitum, fino a che, per carsismo, il concetto si scava una sua strada e loro la finiscono, o quantomeno attenuano.

Ieri sera sono tornati, o meglio hanno provato a ritornare, alcuni dei miei conterranei rimasti bloccati al nord Italia.
Il presidente della regione, con due post su Facebook, ha prima stigmatizzato il loro comportamento e poi ha bloccato i traghetti.

Non so chi ci fosse su quel traghetto: forse persone che non hanno capito il senso dei provvedimenti. Più probabilmente (molto più probabilmente) c’erano persone che hanno capito benissimo il senso dei provvedimenti ma che hanno delle necessità tali da giustificare un rientro. Non so quali necessità, non riesco a fare una classifica delle necessità di una persona: economiche vengono prima di quelle emotive? Familiari prima di quella personali? Salute del soma prima di quella della psiche?

Nei molti commenti sotto al post, francamente ieratico, del presidente Musumeci le reazioni dei mie conterranei a questo rientro: ostili, di rifiuto, di colpevolizzazione, e il mio presidente di regione sembra esserci andato a nozze.

Per la verità, molti amministratori sembrano andare a nozze con quel tipo di reazione: girano video di sindaci che rimproverano molto aspramente i propri concittadini, li minacciano addirittura di ricorrere alle cattive, visto che con le buone non l’hanno capita. E quanto più i video mostrano un atteggiamento spazientito e minaccioso del sindaco, tanto più vengono apprezzati e condivisi sui social.

Il sindaco della mia città, Siracusa, fino a ora, non si è mai abbandonato a messaggi di questo tipo, ed è una cosa che apprezzo molto, e che invece i miei concittadini, sempre stando ai commenti, sembrano deprecare come mancanza di nerbo.

Eppure, mi sono detto, i genitori dei miei ragazzi non fanno che complimentarsi con me per la mia pazienza, non mi dicono mai che farei bene a passare alle cattive, o a minacciarli di punizioni sempre più severe.

I ragazzi della mia classe, invece, tra di loro, quando in videochat qualcuno fa lo scherzetto di mutare il microfono all’atro, si scatenano in proteste di ogni genere, e per lo più si rivolgono a me chiedendo giustizia.

È impossibile stabilire chi sia stato, non c’è modo di saperlo, nemmeno io, che sono l’amministratore del gruppo, riesco a capire chi possa essere stato. Eppure tutta la classe si mette a cercare un colpevole. Che non si trova. Perché un vero colpevole non c’è: colpevole è Skype, che giustamente prevede per ogni utente la possibilità di poter silenziarne un altro, una funzione utilissima in molte videoconferenze, di cui i ragazzi abusano.

Come mai ne abusano? Per me, che sono un insegnante e ho a che fare ogni giorno con degli undicenni, la risposta è scontata: per immaturità. Ma l’immaturità è una condizione, non è una colpa.

Colpevole è questa situazione, che ci ha dirottati sulle videolezioni. Colpevole è l’età dei miei ragazzi, che col suo subbuglio ormonale li rende smaniosi, frenetici, intemperanti. Colpevoli, infine, sono di sicuro quei due o tre che si accaniscono in questo dispetto che francamente ha rotto la minchia a tutti.

Il meccanismo con cui i miei conterranei hanno reagito al tentativo di rientro di altri conterranei dal nord Italia è molto simile: c’è una situazione difficile, sicuramente molto fastidiosa, e allora ci deve essere un colpevole, e i colpevoli sono questi che tornano a casa.

In questo momento noi siamo una classe di undicenni e gli amministratori, credo in perfettissima buona fede, ci stanno imponendo regole punitive, partendo dal presupposto che non sapremo gestire da soli la possibilità di silenziare il microfono dell’altro. Noi come stiamo reagendo? Accusandoci tra noi, l’uno con l’altro, di colpe che non sono nostre, ma sono imputabili a molti fattori concorrenti. Questo significa che siamo tutti tenuti a un comportamento responsabile.

Responsabilità personale, se solo quelle scimmie urlatrici dei miei studenti mi ascoltassero una volta ogni tanto, sarebbe l’espressione di cui mi piacerebbe discutere insieme a loro.

Secondo me responsabilità personale significa vigilare su noi stessi, non sugli altri. Degli altri dobbiamo pensare che saranno responsabili tanto quanto noi, e che come noi, agiranno mossi da necessità uguali o diverse dalle nostre, e che esattamente come facciamo noi, piazzeranno su una scala di priorità, sempre soggette a mutamenti.

Controllare gli altri, alla ricerca del loro errore, non serve a migliorare la nostra situazione complessiva, ma solo a peggiorarla. E meno che mai serve mettersi a chiedere giustizia invocando il professore. Non tutti i professori sono pazienti. E ad alcuni fare i professori autoritari potrebbe piacere molto.

Cerchiamo per favore tutti quanti di far capire ai nostri amministratori che preferiamo sposare le regole e i comportamenti perché ci vengono spiegati, anche allo sfinimento, e non perché siamo minacciati. Usiamo le nostre energie residue per due cose: non diventare cattivi e mantenerci intelligenti

*Mario Fillioley è siciliano e insegna nella scuola media. Per Minimum Fax ha pubblicato “La Sicilia è un’isola per modo di dire” e “Lotta di classe. Diario di un anno da insegnante in prova”.

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