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Prendiamo la morte con filosofia, quella giusta però

Con “La filosofia non è una barba”, Matteo Saudino punta a catturare l’attenzione di un pubblico distratto da troppe incursioni comunicative

L’autore, Matteo Saudino, è un classico esempio di educatore auto-educantesi, un professore di filosofia nei licei che ha imparato molto dai suoi allievi. Da loro ha appreso e modulato quel difficile e non scontato passaggio del sapere tra emittente e ricevente. Spesso l’inghippo tra i due attori dell’azione comunicativa sta nel modo in cui si presenta il messaggio. In questo suo libro (La filosofia non è una barba, Milano, Vallardi, 2020) presenta un modo astuto di attirare l’attenzione dei riceventi verso i grandi temi della filosofia, partendo da aneddoti veri o verosimili relativi alla morte di 15 filosofi, da Talete a Nietzsche. È un metodo che punta a catturare l’attenzione di un pubblico distratto da troppe incursioni comunicative, ancorarlo alla lezione-narrazione in corso, evitando che l’abbandoni per poter così introdurre la vita e il pensiero del filosofo esaminato. È un racconto al contrario, una biografia capovolta, che parte dalla morte come specchio dell’esistenza. Inverte quel classico e noioso procedere della manualistica e del prof. alienato: la vita del protagonista (quando e dove è nato, la famiglia, gli interessi, le frequentazioni, matrimonio, figli e figlie, amici, grazie e disgrazie della vita quotidiana ecc. ecc.), le prime opere, quella o quelle fondamentali, cosa dice la critica.

Tema rimosso, nascosto, tenuto a distanza dalla vita, la morte, nell’attuale società edonista ed egotica, rappresenta la disgrazia massima che può accadere, è il limite ineluttabile che getta angoscia al vivere, che pone alla vita la domanda imbarazzante circa il senso dell’esistenza, sospesa com’è “tra due punti certi: nascere e morire”. Una soluzione, proposta da Schopenauer per uscire dal mondo angosciante, consiste nel non facile esercizio di eliminazione della pulsione desiderante che rende gli uomini schiavi e competitivi. Solo avvicinandosi all’annullamento della volontà egoistica di vivere che governa abitualmente il mondo si può provare a essere autenticamente liberi. Solo una vita autentica ci libera dall’angoscia della morte. Il bene del vivere si consuma vivendo, cioè si muore un po’ per poter vivere?  Una vita infinitamente lunga è impossibile, quindi si dovrebbe aspirare a una vita piena, compiuta, per poi abbandonarla di buon grado. Gli uomini, ha scritto Marcuse in Eros e civiltà, “possono morire senza angoscia se sanno che ciò che amano è protetto dalla miseria e dall’oblio. Dopo una vita compiuta possono decidersi per la morte”.

La filosofia, definita “ortica pungente” da Matteo Saudino, non ha rimosso la questione e assieme alla letteratura e all’antropologia ha narrato e indagato il problema. Lo ha fatto socraticamente, seguendo l’insegnamento di un uomo cocciuto e testardo, polemico, tormentoso come un tafano qual era Socrate il quale, messo di fronte all’alternativa tra essere esiliato e smettere di fare filosofia, oppure morire, sceglie la morte, perché una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta.

Nel libro sono esposte diverse ragioni per le quali si può morire e in quell’atto ritrovare il senso della vita e del pensiero. Una vita senza curiosità non è degna di essere vissuta. Il rischio per la conoscenza è un prezzo da pagare alla bellezza del vivere (Talete), quindi senza paura di sorta si devono varcare i confini dell’ignoranza e dell’apparenza (Eraclito) e l’apparenza del vivere e del morire fanno parte del ciclo cosmico che tutto raccoglie e da cui tutto ha origine secondo Empedocle, che trova agganci nell’affermazione di San Francesco d’Assisi: «sorella nostra morte corporale, dalla quale nullo omo vivente po’ scappare», che, insieme a frate sole, luna e stelle, vento e acqua, fuoco e terra, rappresenta il fluire della vita delle specie in tutte le sue forme di energia.  La morte diventa un momento naturale, di dignità, da vivere in modo libero e consapevole, libero dal timore degli dei per Democrito. Morire dignitosamente rimanendo fedele ai propri principi è la cosa più buona e giusta che un uomo possa fare (Pitagora), perché l’uomo è il padrone della sua vita e nulla deve sfuggire alla sua capacità di autodeterminarsi (Diogene). Si deve difendere le proprie idee, la propria autonomia di giudizio, mai rinunciarvi anche a costo di perdere tutto, testa e vita comprese, com’è successo a Thomas More e a Giordano Bruno arso come eretico.

Si tratta di tesi tutte fondate sulla ragione, sul logos, per le quali, direbbe l’antropologo sociale, morte e vita non sono fatti opposti finché l’uomo non si fa individuo, unico e irripetibile, ma resta parte della specie. Con il passaggio a quella che chiamiamo civiltà inizia per gli uomini il processo di alienazione da sé e dalla natura, perdono il primitivo senso di specie, di conseguenza diviene sempre più drammatico il dissidio tra vita e morte. Dissidio che si manifesta nell’opposizione tra ragione e passione, secondo il famoso detto di Pascal: il cuore ha delle ragioni, che la ragione non coglie. Sono due elementi non sempre conciliabili: provocano contraddizioni e paralizzante angoscia esistenziale, lottano perennemente nella coscienza, tolgono tempo e spazio allo stato di quiete del vivere.

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