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Il calcio ha perso un poeta. Addio a Ezio Vendrame

La morte di Ezio Vendrame, grande centrocampista che amava la vita più del professionismo. L’amicizia con Piero Ciampi, l’ammirazione per Pasolini

E’ morto oggi a 72 anni Ezio Vendrame. A molti appassionati di calcio – specie i più giovani – il nome non dirà granché. La sua carriera calcistica infatti fu al di sotto delle aspettative, il suo genio sportivo vanificato dall’insofferenza alla disciplina tattica e agli schemi. Centrocampista, scrisse belle pagine in serie A col Vicenza. Come nel 1971, a San Siro: mister Invernizzi cambia tre volte la marcatura su di lui. Alla fine ci prova, senza esito, Giacinto Facchetti.  Il Napoli, invece, prima lo soffia all’Inter nel calcio mercato, poi lo scarterà nel giro di poco per l’incompatibilità con l’allenatore Vinicio non disposto a sopportarne l’anarchia tattica e comportamentale. Vendrame era un po’ troppo testa dura o forse un po’ troppo amante della vita per privarsi di momenti di gioia da sacrificare sull’altare delle imposizioni del professionismo.

Ma se non lo si ricorda per la carriera calcistica è anche per un merito, quello di essere stato uno dei punti di incontro tra calcio e poesia. Sia chiaro, calcio e poesia possono diventare non di rado un tutt’uno: in una punizione calciata sotto l’angolino, in un fraseggio di prima che proietta davanti alla porta avversaria o in un’elegante rovesciata che si insacca alle spalle del portiere avversario. Oppure, calcio e poesia si uniscono quando un calciatore si imbatte in un poeta. Un pezzo importante della vita di Ezio Vendrame è stata l’amicizia col poeta Piero Ciampi.

Il primo friulano e sovversivo della sfera di gioco. Uno che amava giocare a calcio ma non fare il calciatore; infastidito dalle regole, amante delle donne e della spensieratezza, dei ragionamenti e della filosofia.

Il livornese Piero Ciampi invece era un’anima “senza pace”, persa nell’alcol e negli interrogativi che lo portarono a girare mezza Europa dissipando amori e salute. Suonava e scriveva versi toccanti musicati per palati delicati, facendosi interprete del suo talento ma anche dei suoi drammi personali ed interiori che ogni volta si consumavano nell’ultimo bicchiere. Ciampi, pur limitato dai suoi vizi e dalle sue irrequietudini, giunse a collaborare con artisti come Lucio Dalla e Gino Paoli, Paolo Conte e Ornella Vanoni.

Ezio Vendrame e Piero Ciampi, un’amicizia nata per caso, un’enorme stima reciproca, un legame come pochi, coltivato nel tempo in cui i due si facevano visita, chiacchieravano e si confrontavano per intere notti, fino a mattina. Due persone libere anche se un po’ schiave delle loro personalità fuori dagli schemi. Quando due così si incontrano può succedere di tutto.

Vendrame, il George Best friulano, dopo la brutta esperienza di Napoli, finisce in terza divisione dove fa il talento sprecato, troppo forte per la categoria. Tuttavia la sua fama di professionista poco professionale gli preclude un contratto in una squadra della maggior categoria. Così si accasa al Padova in C dove è di gran lunga il più bravo, e dove può darsi la gratificazione di frequentare le osterie e gli amici dei tempi di Vicenza che ai suoi occhi valevano molto di più di gloria e denaro.

Una domenica, a sorpresa va a vederlo allo stadio il suo amico Piero Ciampi. Così Vendrame in maglia biancoscudata, accortosi della sua non preventivata presenza in tribuna, interrompe un’azione di gioco raccogliendo in mano il pallone tra l’incredulità generale e va a porre il suo omaggio e saluto all’amico presente nelle tribune dello stadio. Vendrame fu capace di episodi così perché non sopportava la noia, la scontatezza, il finto perbenismo. Oppure perché ai poeti andava reso omaggio. «Il calcio è una cosa volgarissima di fronte ad un poeta come Piero» dirà poi Vendrame a fine partita per spiegare il suo gesto.

Dopo aver allenato, scritto romanzi e concesso interviste – sempre schiette e intelligenti come nel suo stile – Vendrame negli ultimi tempi usciva sempre più di rado, affezionato com’era alla sua terra friulana e a disagio nel mondo d’oggi che riserva spazi sempre più stretti alle personalità eccentriche ed autentiche come la sua.

Chissà cosa pensava del calcio d’oggi, ridotto a urlare di dolore per le perdite economiche conseguenti alla sospensione delle competizioni. Niente a che vedere con quello di un tempo che non si prendeva così dannatamente sul serio e che, volendo, sapeva riservare piccoli spazi anche ad incontri sui generis, come quello tra un calciatore ed un poeta.

Una volta appesi gli scarpini al chiodo Vendrame ha scritto numerose raccolte di poesia e anche alcuni libri biografici. Il suo idolo è sempre stato il compaesano Pierpaolo Pasolini: nell’ultima intervista di pochi mesi fa – dopo un silenzio durato anni – che scelse di rilasciare di fronte alla tomba dell’intellettuale, affermò: «Pierpaolo è ancora oggi la persona più viva che c’è a Casarsa».

La sua carriera agonistica è stata costellata da episodi mitici. Fuori dal campo sosteneva di aver collezionato centinaia di avventure amorose. Capelli lunghi, look da hippy scanzonato e ribelle. Giocatore estroso e dotato di gran tecnica, giocava indifferentemente come ala e mezzala. L’allora presidente della Juventus, Giampiero Boniperti, lo paragonò al fantasista argentino Mario Kempes, quello del trionfo ai Mondiali del ’78. Nereo Rocco diceva che era pazzo. Il pubblico lo adorava per il suo genio e la sua irriverenza. Generoso come pochi, nel 1969, in uno degli inverni più rigidi di quel periodo, Vendrame decise di comprare un cappotto di cammello da 70 mila lire, quando lo stipendio medio degli italiani era intorno alle 120 mila. Appena uscito dal negozio, incontrò uno zingarello seminudo che gli chiese la carità, e, non avendo banconote in tasca, gli regalò il cappotto: «Aveva più freddo di me», sarebbe stato il suo commento. La sua carriera decolla con il Lanerossi Vicenza nella massima serie: in molte partite risulta assolutamente immancabile. Come nel 1971, a San Siro: mister Invernizzi cambia tre volte la marcatura su di lui. Alla fine ci prova, senza esito, Giacinto Facchetti.

Un piccolo rimpianto di Vendrame fu aver fatto un tunnel al suo idolo assoluto nel calcio: Gianni Rivera. «Fu un gesto istintivo. Mi venne incontro e aveva la gambe aperte. Subito dopo mi scusai con lui, anche se quando apri troppo le gambe qualche rischio lo corri sempre», commentò a fine match, facendo un nemmeno troppo velato riferimento alla sua carriera parallela di playboy.

Ormai a fine carriera, racconterà alcuni retroscena: «In una delle ultime partite della stagione arriva all’Appiani di Padova l’Udinese, in lotta per la promozione in Serie B – spiegò molti anni fa il talento friulano – i dirigenti bianconeri mi offrono 7 milioni di lire per starmene buono buono per tutti i novanta minuti». Vendrame accetta: «Ho fatto pena in tante di quelle partite – la sua giustificazione -. E tutte senza che nessuno mi desse una lira, per una partita di m… in più cosa cambia?». Solo che lo stadio patavino è una bolgia di supporter friulani che hanno seguito la squadra in trasferta e iniziano a fischiare, insultare e inveire contro il loro conterraneo. Vendrame si fa dar palla e cambia le sorti del match che i bianco-scudati vinceranno 3-2. Poco prima di tirare un calcio d’angolo per la sua squadra, Vendrame si soffia il naso con la bandierina e poi, con ampia gestualità, annuncia che metterà la palla nel sette. Esattamente dove la sfera finirà la propria corsa pochi istanti dopo. «Quel giorno nelle mie tasche finirono solo 44.000 lire, cioè il premio partita stabilito dalla Federazione, invece di 7 milioni – raccontò il calciatore – ma vuoi mettere la soddisfazione?». Sempre nel corso della sua esperienza a Padova, durante l’incontro con la Cremonese della stagione 1976-1977, per il quale le due società si sarebbero accordate per il pareggio, prese palla al limite dell’area avversaria dribblando i suoi compagni e arrivando fino alla propria porta, fintando il tiro, saltando anche il proprio portiere e infine tenendo la sfera, in segno di sfida, sotto i tacchetti. Un tifoso non regge la tensione e viene colto da infarto. «Se sapeva di essere sofferente di cuore e ha scelto di assistere a una mia partita, è evidente che voleva morire, ma è morto felice», fu il commento del calciatore.   Aveva redatto anche una personale graduatoria dei giocatori che aveva visto giocare di persona: sul podio Maradona, Gianfranco Zigoni e Gigi Meroni. Della sua carriera da allenatore, a parte i tanti successi, spicca la frase con cui ha preso commiato dal calcio, stufo dell’invadenza dei genitori dei baby-calciatori: «Potrei tornare ad allenare solo se ci fosse una squadra di orfani».

 

 

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