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Dakar in Arabia, armi e motori per uomini che odiano le donne

Al via il prestigioso rally che il principe wahhabita si è “comprato”, con la benedizione di Macron, per avvolgere in una nuvola la sua ferocia

“La Dakar c’è, ancora una volta, nonostante il Covid e le difficoltà geopolitiche che hanno costretto gli organizzatori a rinunciare ancora una volta all’edizione originale che che partiva da Parigi”. Il cronista di una nota agenzia è a dir poco entusiasta! Racconta che, dopo le 30 edizioni in Africa e le 10 in Sud America, dal 2020 la competizione si è trasferita in Arabia Saudita dove si correrà anche quest’anno con rigide misure sanitarie come l’isolamento in hotel dei partecipanti e un massiccio ricorso ai tamponi. Poi entra nel vivo, da vero esperto di motori. E riferisce che la 43ma edizione della Dakar vedrà iscritte 13 donne e altre quattro donne saranno nella categoria delle auto d’epoca, una delle principali novità di questa seconda edizione araba. Nemmeno una parola, tipico della stampa embedded, quella che accede alle sale stampa ufficiali e ai suoi benefit, sul senso di questo trasloco della kermesse rallystica in Arabia Saudita, uno degli stati meno rispettosi dei diritti umani di questo pianeta. Nelle stesse ore in cui la carovana rombante si metteva in moto, i caccia dell’aviazione saudita bombardavano obiettivi civili a Sana’a nello Yemen, armi graziosamente vendute da Francia, Italia e altri galantuomini.

Donne e motori, anzi no: armi e motori

Una rapida ricognizione in rete non offre spunti più degni nella galassia dell’informazione sportiva professionale o amatoriale, molto attenta a capire se il trasloco in Arabia sia all’altezza dello spirito del rally ma assolutamente indifferente alle conseguenze dello “sport” sulla terra e sulla vita delle persone. In questa discutibile classifica le discipline motoristiche contendono il primato all’industria sciistica. Ma è il mondo dello sport, l’autentico oppio dei popoli da un paio di secoli, a non avere grande sensibilità etica. Il caso della Dakar araba è emblematico ma sui giornali blasonati solo date, percorso, le insidie delle tappe e la nostalgia dei bei tempi andati.

Ma 322 concorrenti che sono appena partiti al via del 43° Rally Dakar a Jeddah, che per il secondo anno consecutivo è diventata una sorta di tour automobilistico dell’Arabia Saudita sono le comparse di una grande operazione di comunicazione politica volta a far dimenticare al mondo la natura medievale e tirannica del regime saudita. Ispirato da diverse agenzie di comunicazione francesi, il principe ereditario Mohammed Ben Salmane, meglio conosciuto con le sue iniziali MBS, che di fatto governa il paese al posto del padre, ha deciso due anni fa di acquistare il clamore mediatico globale che accompagna la manifestazione dalla sua creazione nel 1979, per modernizzare l’immagine della monarchia wahhabita.

In origine, è stato principalmente per eclissare nell’opinione internazionale l’orrore e la repulsione causati dall’omicidio dell’ottobre 2018 a Istanbul, in condizioni abominevoli, del giornalista saudita Jamal Khashoggi, che ha denunciato nei suoi articoli sul Washington Post l’autoritarismo e la corruzione dei principi al potere a Riyadh. Poi MBS ha voluto creare una nube mediatica duratura che nascondesse la vera natura ipocrita, intollerante e violenta del regime saudita. E dentro questa nuvola lo stesso MBS potrebbe continuare a esercitare il suo potere magari con qualche ritocco di facciata, modernista, alle strutture marginali del dispotismo.

Soldi sporchi di sangue

Secondo un documento diffuso un anno fa dalla Lega per i diritti umani e dalla Federazione internazionale per i diritti umani (LDH e FIDH), alla vigilia dell’inizio della prima “Dakar saudita”, il contratto stipulato per 5 anni tra Riyadh e l’organizzatore francese del rally, l’Amaury Sport Organisation (ASO), ammonterebbe a 80 milioni di euro. Spiccioli per l’Arabia Saudita. Un provvidenziale colpo di fortuna per il gruppo francese.

Perché il suo gigantesco rally, svoltosi dal 1979 al 2007 tra Parigi e Dakar in Europa e in Africa, poi trasferito in America Latina a causa dell’insicurezza del Sahel, sembrava minacciato, se non addirittura condannato, dalla crisi economica latinoamericana. Una situazione che i principi sauditi e i loro consiglieri hanno sapientemente sfruttato offrendo al gruppo ASO un accordo difficile da rifiutare: salvare il rally rinnovando totalmente lo scenario della manifestazione. Tutto questo in cambio di un assegno sostanzioso.

Per attirare l’attenzione dei dirigenti dell’ASO sull’operazione di riciclaggio dell’immagine di cui il raduno è stato lo strumento e di cui sono diventati complici, FIDH, LDH e le loro organizzazioni partner in Arabia Saudita, hanno scritto un anno fa al presidente del gruppo Jean-Etienne Amaury e al direttore generale Yann Le Moenner, sottolineando la loro responsabilità nel promuovere un Paese “notoriamente lontano dai principi internazionali dei diritti umani”. Senza alcun risultato.

Nel dicembre 2019, si apprende dal sito francese Mediapart, la FIDH si è rivolta anche a Delphine Ernotte, presidente di France Télévisions, l’emittente ufficiale della manifestazione, per chiederle di “denunciare la sua partnership” o, almeno, di “fare in modo che la trasmissione della Dakar non sia una piattaforma offerta al regime saudita per ripristinare la sua immagine e far dimenticare i suoi crimini”. Anche questo invano.

In termini di tolleranza del dispotismo, il cattivo esempio viene dall’alto. Dal Palazzo dell’Eliseo, dove Emmanuel Macron riceve e si prende cura di tiranni e dittatori. Soprattutto quando sono buoni clienti delle industrie di armi. Anche Popoff ha scritto recentemente dell’attribuzione, alla chetichella, della Gran Croce della Legione d’Onore al maresciallo dittatore egiziano al-Sissi all’inizio di dicembre.

All’epoca ci sono voluti quasi due mesi perché il presidente francese dimostrasse la sua disapprovazione per l’omicidio di Jamal Khashoggi decidendo, dopo Washington, Londra e Berlino, di bandire diciotto cittadini sauditi dal territorio francese. All’epoca, Macron descrisse la decisione di Angela Merkel, che aveva appena annunciato un embargo sulle consegne di armi tedesche all’Arabia Saudita, come “pura demagogia”.

Forca e torture, il medioevo sessista è servito

E’ quindi in una dispotica monarchia ereditaria, governata dalla Sharia ma amica ufficiale della Francia, che si svolgerà il 43° Rally di Dakar. Un paese dove le condanne a morte sono all’ordine del giorno, e le esecuzioni altrettanto ordinarie. Un paese che, nel 2019, ha visto 180 esecuzioni capitali per decapitazione di spada, crocifissione o lapidazione. Cioè, in media, uno ogni due giorni.

Un paese dove non c’è libertà di espressione, di riunione e di associazione. Dove la promozione della democrazia è un crimine punibile con la pena di morte, così come la critica al regime, l’adulterio, l’omosessualità o il cambiamento di religione. Un paese in cui esiste un vero e proprio apartheid sessuale che rende le donne minorenni a vita, soggette per legge alla tutela legale degli uomini. Uno status che richiede loro di ottenere il permesso da un tutore maschio per lavorare, viaggiare, studiare, sposarsi o accedere all’assistenza sanitaria.

In questo scenario di “profondi e misteriosi deserti”, come descritto dalla documentazione dell’ASO, i difensori dei diritti umani – giornalisti, attivisti, oppositori politici, scrittori – sono trattati come nemici dello Stato. Esposta a sparizioni forzate e a detenzioni arbitrarie.

Vittime di uno specifico arsenale legale, incluse le leggi “antiterrorismo” che criminalizzano una vasta gamma di attività civili pacifiche, migliaia di attivisti per la democrazia e i diritti umani sono detenuti, scontando pene detentive tra i sei e i 30 anni. Tra maggio e luglio 2018, alcuni attivisti per i diritti delle donne impegnati nella difesa dei diritti umani e in particolare nella campagna per i diritti delle donne sono stati arrestati e incarcerati, dove hanno subito torture e violenze degradanti.

La storia di Loujain al-Hathloul

Tra loro c’è Loujain al-Hathloul, studentessa di scienze sociali alla Sorbona di Abu Dhabi. Ho letto la sua storia proprio su Mediapart. È stata la prima donna a candidarsi alle elezioni in Arabia Saudita nel 2015, e si è fatta un nome nel regno e oltre attraverso la sua campagna pacifica per il diritto delle donne a guidare liberamente.

Loujain al-Hathloul

Dal suo arresto il 15 maggio 2018, poche settimane prima dell’abolizione della legge contro cui lottava, Loujain al-Hathloul è stata accusata di aver condotto campagne per i diritti delle donne, di aver incontrato giornalisti stranieri, diplomatici, membri di organizzazioni per i diritti umani e di aver cercato di cambiare il sistema politico del Regno. È anche accusato di aver fatto domanda di lavoro alle Nazioni Unite. Ma secondo la sua famiglia, l’obiettivo principale è quello di impedirgli di rivendicare la sua parte di responsabilità per l’abolizione del divieto di guida. In altre parole, per diventare una voce riconosciuta e credibile nella società civile saudita.

Quando Loujain e una dozzina di altri attivisti sono stati arrestati, i giornali sauditi responsabili hanno pubblicato le loro foto con il timbro “traditore” accusandoli di “minare la sicurezza del regno”. Inizialmente portata davanti a un tribunale penale ordinario, Loujain al-Hathloul è stata informata il 25 novembre, dopo tre anni di detenzione preventiva, che il suo caso era stato trasferito al tribunale speciale per il terrorismo.

Temendo la fretta e l’arbitrarietà delle sue sentenze, il tribunale ha emesso il suo verdetto il 28 dicembre. Dopo 958 giorni di detenzione, Loujain al-Hathloul, accusata per “varie attività vietate dalla legge antiterrorismo” – attività per le quali i magistrati non hanno mai fornito prove – è stata condannata a cinque anni e otto mesi di carcere. Secondo la sua famiglia, potrebbe essere rilasciata tra due mesi… Ma il tribunale si è rifiutato di pronunciarsi sui maltrattamenti e le torture – finti annegamenti, violenza sessuale, scosse elettriche, fustigazione – che ha subito in detenzione. Durante le quattro settimane del suo processo, nessuna delle richieste della giovane attivista femminista di indagare sulle sue torture e sui maltrattamenti è stata accolta.

Il 25 novembre, il secondo giorno del suo processo a Riyadh, diplomatici provenienti da Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti, Norvegia, Svizzera e Canada hanno simbolicamente visitato il tribunale il secondo giorno del suo processo per mostrare l’interesse dei loro paesi, se non il loro sostegno, almeno il loro interesse per il suo caso.

La Francia, “la cui presenza in questa delegazione avrebbe potuto inviare un segnale forte” secondo Amnesty International, non era rappresentata. Il suo destino, in ogni caso, non era stato discusso durante i due incontri avuti a gennaio e luglio con il suo omologo saudita, Faisal ben Farhan ben Abdallah Al Saud. Almeno questo è quanto indicano i resoconti delle loro interviste trasmessi dal Quai d’Orsay. Soprattutto, non mettere a repentaglio i contratti futuri con un paese che per dieci anni è stato il terzo cliente francese per le vendite di armi e che sembra stia pensando di cambiare fornitore.

Serve un embargo europeo alle armi per l’Arabia Saudita

Venendo in Italia, nella mattinata di martedì 22 dicembre la Commissione Esteri della Camera dei Deputati ha votato una importante Risoluzione sulla drammatica situazione dello Yemen che impegna l’Esecutivo a “mantenere la sospensione della concessione di nuove licenze per bombe d’aereo e missili che possono essere utilizzati a colpire la popolazione civile, e della loro componentistica” verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi misura già in essere da metà 2019 (e con scadenza prevista a gennaio 2021) oltre che “a valutare la possibilità di estendere tale sospensione anche ad altre tipologie di armamenti fino a quando non vi saranno sviluppi concreti nel processo di pace”. Ma il voto parlamentare va anche oltre rispetto alle decisioni del 2019 (prese dalla precedente maggioranza di Governo) chiedendo di “adottare gli atti necessari per revocare le licenze in essere”, che quindi non potranno più essere riattivate una volta terminata la sospensione. Nel testo si chiede di valutare infine la possibilità di adottare mirate misure sospensive nei confronti di tutti i Paesi coinvolti attivamente nel conflitto in Yemen e dunque non solo verso i due principali attori del conflitto, come da mesi chiedono le nostre Organizzazioni. Per questo Amnesty International Italia, Comitato Riconversione RWM per la pace ed il lavoro sostenibile, Movimento dei Focolari, Oxfam Italia, Rete Italiana Pace e Disarmo, chiedono ora al Governo di recepire in maniera rapida le indicazioni provenienti dal Parlamento, in modo che la sospensione continui a rimanere effettiva anche dopo la sua prima scadenza senza soluzione di continuità. Le organizzazioni chiedono anche al Governo di farsi protagonista di una iniziativa a livello europeo volta ad un embargo completo su tutti i sistemi d’arma verso gli attori coinvolti nel conflitto e verso i Paesi che commettono violazioni di diritti umani o addirittura crimini di guerra; ricordiamo che lo scorso 17 settembre il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione che chiede di “avviare un processo finalizzato ad un embargo dell’UE sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita e altri membri della coalizione a guida saudita”.

Ora provate a ripetere il ritornello consolatorio per cui lo sport non è né di destra, né di sinistra.

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