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L’altra faccia della crescita cinese

Cina. 503 scioperi in sei mesi. I lavoratori non si compiacciono che vengano compressi i loro salari [Francisco Louçã]

L’ammirazione per l’economia cinese e per i suoi metodi è un curioso tratto caratteristico del nostro tempo. Da [Pedro] Passos Coelho [dirigente del Partido Social Democrata, ex primo ministro] e da [Paulo] Portas [già dirigente del CDS-Partido Popular] – che le vendettero avidamente alcuni tesori nazionali – ad alcuni dirigenti di sinistra e a insospettabili economisti, c’è una specie di consenso sotterraneo nel vantare i successi cinesi come un modello o, quanto meno, come fonte di ispirazione. Questo modello prova come uno Stato forte e un sistema finanziario controllato dalle pubbliche autorità sia in grado di contenere l’impatto delle crisi economiche o addirittura di evitarne alcune. Ma prova anche che, ponendo il sistema al servizio dell’accumulazione capitalistica, si generano contraddizioni insanabili. Non si può avere allo stesso tempo la botte piena e la moglie ubriaca.

Successi

Per quanto si possano avanzare riserve sulle sue cifre, è indiscutibile il fatto che l’economia cinese esca trionfatrice dal 2020. Già nel terzo trimestre ha avuto una forte ripresa, con una crescita del 4,9 %, e mentre il PIL mondiale cadrà in un anno del 5 %, quella cinese sarà l’unica economia con un saldo positivo (il FMI prevede una crescita dell’1,85 % nel 2020 e dell’8 % nel 2021). La causa principale di questa ripresa, dopo un drastico lockdown che aveva congelato la produzione, risiede in un massiccio investimento: in luglio, la crescita lorda del capitale fisso è stata dell’8,3 %, in agosto del 9,3 %, mentre nell’industria è stata del 5,6 %. Si sono effettuati giganteschi investimenti nella logistica, nelle infrastrutture e nel rilancio delle attività imprenditoriali. Di conseguenza, il debito pubblico è balzato al 285 % del PIL (una percentuale superiore a quello portoghese), ma che per nove decimi è costituito da risparmio interno, non dipendendo dalla valuta estera ed essendo pertanto la situazione sotto controllo.

Il segreto di questo successo è dunque facilmente identificabile: l’investimento pubblico in risposta a una recessione, nient’altro che questo. È sempre stato così, e nella recente storia della Cina questo successo può essere misurato in diverse forme. La Banca Mondiale sostiene che in un quarantennio sono 800 milioni le persone uscite dalla povertà, e le autorità cinesi hanno addirittura proclamato la fine della povertà estrema (quella di chi può contare su meno di due euro al giorno, su meno di 60 euro al mese).

Il mondo degli affari

Tuttavia, l’autoritarismo sociale associato a questo successo economico è anche un richiamo irresistibile per le imprese straniere. Queste contano sul Partito comunista cinese per impedire la libertà sindacale e l’organizzazione dei lavoratori. Ma anche sull’esistenza di un mercato gigantesco, anche di prodotti di lusso: oltre all’Unilever (prodotti alimentari), imprese come Adidas (articoli sportivi) e l’Oréal (cosmetici) registrano in Cina vendite superiori a quelle che fanno negli USA.

Oltre a ciò, la Cina domina per capacità innovativa nei mercati in più rapida crescita: è nel 2013 che il suo sistema di vendite online ha superato quello statunitense, e oggi il suo volume d’affari supera quello degli USA e dell’Europa sommati. Le imprese cinesi hanno realizzato piattaforme di vendita con innumerevoli servizi, giochi, accesso al credito, informazione, attività sociali, intrattenimento: tutto un mondo su un solo cellulare. Si tratta, forse, della più importante innovazione economica nel decennio, che solo ora comincia a essere imitata.

Non c’è rosa senza spine

Ma poi vengono i problemi. Nel novembre scorso, due giorni prima della più grande operazione di vendita d’azioni nella storia del capitalismo moderno, e cioè l’aumento di capitale di Ant, il braccio finanziario di Alibaba di Jack Ma, l’evento venne sospeso dalle autorità cinesi. Alibaba è stata accusata di pratiche monopolistiche: avrebbe costretto i fornitori a firmare contratti di esclusiva. La stampa ha interpretato il fatto come una ritorsione in seguito a un recente discorso di Jack Ma, che derideva la banca nazionale. Comunque stiano le cose, si è trattata di una riaffermazione del potere nei confronti di una parte del sistema finanziario privato in crescita. La Ant, inoltre, ha un sistema per cui finanzia direttamente solo il 2 % del credito che concede, mentre prende il 98 % restante proprio dalla banca tradizionale, giocando così sempre sul sicuro. In ogni caso, questo contrasto è rivelatore della lotta per il controllo del credito che è in corso, ed è un contrasto destinato ad acuirsi.

Il secondo fattore di tensione sta nella resistenza sociale. Pochi giorni fa, il 19 dicembre, i lavoratori della Pegatron, una fabbrica di Shangai, a capitale taiwanese, che produce per la Apple e per Microsoft, sono entrati in sciopero per opporsi al trasferimento dell’azienda in una città a 70 chilometri di distanza. Una pubblicazione specializzata di Hong Kong, il «China Labour Bullettin», ha registrato 503 scioperi di questo tipo negli ultimi sei mesi. Sapendo quanto vale ciò che producono, i lavoratori cinesi non sembrano disposti a compiacersi del fatto che il Paese comprima i salari e abbia un livello di povertà di circa 60 euro al mese. E questa esigenza di democrazia del lavoro è l’altra faccia della medaglia.

L’autoreFrancisco Louçã, economista, professore universitario, fa parte del Bloco de Esquerda portoghese, di cui è stato uno dei fondatori.

Titolo originale: Sucessos e abalos chineses. Traduzione dal portoghese di Cristiano Dan. L’articolo è stato pubblicato dal settimanale portoghese «Expresso» l’8 gennaio 2021, e poi ripreso da «esquerda.net» e rilanciato da Movimento Operaio, il blog di Antonio Moscato

 

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