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Perché amare Garcia Marquez e Cent’anni di solitudine

In occasione del cinquantacinquesimo anniversario di Cent’anni di solitudine, il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez [Ariel Castillo Mier]

Nel suo cinquantacinquesimo anno di vita, Cent’anni di solitudine continua a essere un libro inesauribile che si apre come una scatola magica da cui escono innumerevoli prodigi, inosservati o impercettibili nelle letture precedenti, e la metafora vivente di Macondo, aperta a molteplici interpretazioni e ricca di suggestioni, continua a rivelare l’altra faccia della realtà colombiana e latinoamericana. Il simbolismo di Macondo permette a García Márquez non solo di trascendere lo schematismo dell’allegoria, ma anche di liberarsi dal peso del realismo sociale e psicologico del XIX secolo, attraverso l’esercizio deliberato dell’immaginazione come asse della creazione letteraria. Per questo, gli studiosi hanno visto nel romanzo una sorta di Bibbia dell’America Latina, con la sua genesi e la sua apocalisse, che comprende l’esodo e le piaghe pestilenziali di politici nazionali prepotenti e inetti e dell’imperialismo economico.

In un continente dilaniato dalla violenza e dal suo eterno presente di stenti e depredazioni, a causa dell’inettitudine dei suoi governanti e della mancanza di solidarietà dei suoi abitanti rassegnati a una storia di successivi e incessanti fallimenti, il romanzo è arrivato 55 anni fa per colmare un vuoto: l’assenza di una memoria comune, di un testo che tessesse uno spazio adatto all’incontro delle nostre affinità e al lucido superamento delle differenze, un ambiente abitabile, una casa dalle porte aperte con i suoi specchi e le sue amache e i suoi accordion transumanti.

Quando il romanzo latinoamericano ha messo a disagio i suoi lettori con l’eterodossia narrativa del boom – i labirinti verbali, i giochi con il tempo, la frammentazione dello spazio, la molteplicità delle prospettive e l’accumulo di allusioni erudite in diverse lingue, tra le altre caratteristiche – Cent’anni di solitudine è arrivato per soddisfare un bisogno umano ancestrale: l’insaziabile appetito per il racconto interessante ed enigmatico che, dotato di un’intima coerenza (senza fili sciolti) e di un’irresistibile forza di convincimento, si appropria della realtà e la proietta carica di suspense e significato.

Vale la pena notare che la suspense del romanzo non è solo a livello delle azioni, ma anche in ogni frase. L’elaborazione verbale di García Márquez è tale che ogni pagina ci sorprende per i suoi successi, soprattutto nel campo dell’aggettivazione, che conferisce al testo una grande plasticità in modo che il lettore possa immaginare gli eventi con precisione. La ricchezza del linguaggio, la bellezza e la felicità dello stile, la sensorialità delle descrizioni delle cose più banali ottengono spesso uno strano effetto mostrando al lettore le cose più banali – magneti, una pianola, una lente d’ingrandimento, la coda cartilaginea di un maiale, un blocco di ghiaccio, denti finti in un bicchiere – come qualcosa di mai visto prima, in modo sorprendente.

Tra le tante ragioni che hanno contribuito al successo del romanzo c’è il giudizio favorevole del lettore che è così grato per la cortesia della chiarezza di questo romanzo che, come nella tradizione orale dei racconti della nonna o delle vecchie canzoni dei menestrelli, riprende lo stupore, l’incantesimo, la magia primitiva e piacevole della narrazione, in cui l’immaginazione recupera i suoi poteri demiurgici.

Strettamente legato al motivo precedente, vale la pena sottolineare la valorizzazione della cultura popolare, l’atteggiamento carnevalesco nei confronti del mondo, i tocchi comici attraverso l’esagerazione e l’umorismo satirico che mettono in discussione il mondo ufficiale e il potere, i codici sociali, il linguaggio letterario, i tabù, il corpo e il sesso come mezzo efficace per avvicinarsi a ambiti chiave della condizione umana. Postulando la letteratura come la migliore invenzione per prendere in giro la gente, il romanzo assesta un colpo sicuro alla gravità, al trascendentalismo, alla ponderatezza e alla retorica così comuni nella letteratura colombiana.

Nelle sue quasi quattrocento pagine, uno dei principali pregi di Cent’anni di solitudine è il dinamismo della narrazione derivante dalle tensioni tra il reale e l’immaginario, la vita e la morte, il comunicabile e l’ineffabile, il passato e il futuro, il locale e l’universale, l’individuale e il collettivo, lo storico e il leggendario, il quotidiano e il mitico, il tempo lineare e quello circolare, e il dialogo, senza complessi, e la volontà di trovare una sintesi tra autori e opere, a volte antitetici, Omero e Sofocle, la Bibbia e le Mille e una notte, Rabelais e Cervantes, La Celestina e El Lazarillo, le cronache della conquista e la poesia dell’età dell’oro, Thomas Mann e Faulkner, Kafka e Camus, Huxley e Capote, Borges e Rulfo, Rómulo Gallegos e Hemingway, Asturias e Cortázar, Fuentes e Carpentier, Joyce e Virginia Woolf, Luis Carlos López e José Félix Fuenmayor, Ramón Vinyes e Clemente Zabala, Álvaro Cepeda e Héctor Rojas Herazo, Nathaniel Hawthorne e Elena Garro.

Cent’anni di solitudine è, a sua volta, una sintesi di generi narrativi: il poema epico, il romanzo cavalleresco, le cronache di viaggio e di conquista, il racconto orale, il romanzo d’avventura, il racconto letterario, il romanzo realista, la pittura in costume del XIX secolo, la poesia simbolista, i miti biblici e greco-latini e le leggende storiche latinoamericane. Tuttavia, il romanzo va oltre l’incorporazione di numerosi miti universali come l’eterno ritorno, la cacciata dal paradiso, l’Arcadia, l’albero della vita, la madre archetipica, la coppia fondatrice, il peccato originale, il figliol prodigo, l’ebreo errante e la guerra tra fratelli, e riesce a integrarli con il pensiero mitico degli aborigeni americani, che sfuma i confini tra reale e immaginario.

Da questo dialogo permanente con le diverse tradizioni letterarie, integrato con la ricostruzione minuziosa dei rituali della vita quotidiana (la visita degli sposi, la veglia funebre, l’iniziazione sessuale, il trambusto della casa, i protocolli del lutto, la prima ubriacatura, l’ubriacatura scolastica), emerge un’altra caratteristica saliente del romanzo, la sua universalità, che ha permesso a lettori di diverse nazionalità di identificarsi con la sua galleria di personaggi maschili e femminili e l’influenza dell’opera su numerosi scrittori nazionali e stranieri.

Dietro l’apparente semplicità del romanzo tradizionale, derivato da una narrazione lineare con un narratore onnisciente che racconta, con dialoghi minimi, in tono imperturbabile, eventi incredibili, Cent’anni di solitudine è un romanzo di rottura che supera le convenzioni del realismo naturalista e del romanzo psicologico. Integrando la tradizione realista del romanzo della terra e del romanzo di protesta sociale con la narrativa d’avanguardia di William Faulkner, James Joyce e Virginia Woolf, García Márquez ha messo in discussione il canone regionalista dominante in America Latina e la tradizione letteraria colombiana, sottomessa alle mode straniere, con le spalle alla nazione e scollegata dalla storia.

Cent’anni di solitudine riunisce in sé diverse specie del genere: è contemporaneamente un romanzo d’avventura, erotico, politico, tragico, allegorico, di protesta, realista, naturalista, fantastico, d’intrigo, di carattere, terreno e metaromanzo. Lucida visione del carattere fittizio di tutta la narrativa, contaminata di favola e mito, il romanzo racconta con fascino, umorismo e immaginazione, sfumando i confini tra realtà e fantasia e, trasfigurando la realtà, la riflette in modo persuasivo in tutti i suoi aspetti: l’individuale e il collettivo, il leggendario e lo storico, il sociale e lo psicologico, il quotidiano e il mitico, l’erudito e il folcloristico. Cent’anni di solitudine costruisce un’immagine plausibile della storia e della geografia di Macondo, della vita quotidiana dei suoi personaggi, del loro modo di lavorare e di divertirsi, delle loro abitudini, dei loro costumi, dei loro sentimenti, dei loro sogni, dei loro incubi e del continuum di fallimenti e infelicità.

Cent’anni di solitudine è un salto di qualità nella letteratura latinoamericana che supera i limiti della mimesi e raggiunge la trascendenza della creazione attraverso la presenza permanente di un umorismo che coglie (e comunica) il lato comico delle cose, sa suscitare il riso dell’intelligenza e anche il riso di situazioni drammatiche e dolorose, il che ha facilitato la sua ricezione in una letteratura come quella colombiana o latinoamericana, spesso caratterizzata da gravità, pathos e magniloquenza.

García Márquez riesce a integrare lingua orale e scritta, colmando un divario che era diventato incolmabile a partire dal teatro dell’età dell’oro, per il quale era indispensabile appropriarsi del detto popolare, della parola viva presente nelle storie orali e dell’uso di dispositivi letterari consolidati da tempo come l’iperbole con i suoi effetti di arricchimento del significato: l’autore ingrandisce gli eventi per mostrarli in tutta la loro pienezza. L’esagerazione si combina con un’altra risorsa che conferisce alla sua narrazione un’aria singolare in una letteratura come quella colombiana, così incline alla solennità: l’umorismo, nelle sue due principali varianti, verbale e situazionale, che contribuiscono efficacemente alla verosimiglianza.

 

García Márquez, con la sua sfrenata immaginazione, che andava oltre l’ingegno della natura, i miracoli e la magia, è stato in grado di nominare con sorprendente chiarezza e forza persuasiva una realtà spesso fraintesa perché a molte cose mancava un nome o a causa di una visione ristretta della realtà che escludeva le credenze, le leggende, i presagi, le superstizioni, le intuizioni, le divinazioni, gli incantesimi e i sogni, i sentimenti e i ricordi quotidiani della gente.

In questo modo, García Márquez ha potuto fare della sua letteratura, come chiedeva Borges, “quello specchio/ che rivela il nostro stesso volto”. E così, nonostante i notevoli cambiamenti avvenuti nel mondo tra il 1967 e il 2022, l’opera mantiene la sua attualità, perché l’autore, invece di farsi distrarre dalle apparenze del suo tempo (o del suo poco tempo), o di disperdersi nelle banalità della vita letteraria, ha saputo penetrare a fondo nell’essenza della condizione umana solitaria e priva di sostegno che, avendola sofferta in carne e ossa, lo ha portato a scrivere perché i suoi amici lo amassero di più.

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