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Genova, passato e futuro del butō

La tredicesima edizione di Testimonianze ricerca azioni nella storica sala di Teatro Akropolis

Finestra sull’oriente estremo – anche in termini di contenuti – aperta a Palazzo Ducale di Genova. Un appuntamento con la danza butō che per il Festival Testimonianze, ricerca, azioni ha sviluppato un focus su una forma espressiva che ha origine nel Giappone del primo dopoguerra, come sedimentazione nell’immaginario collettivo del trauma di Hiroshima e Nagasaki, che ha contato – in questa tredicesima edizione del Festival con la direzione artistica di Clemente Tafuri e David Beronio –  quattro appuntamenti in una sola, intensa, giornata, dal titolo La danza butō. Dai maestri alle nuove generazioni di performer.  Quattro appuntamenti, dal primo pomeriggio alla sera, che hanno approfondito figure e spunti poetici a partire dagli anni Sessanta. Decennio che anche in Giappone, come nel resto dell’occidente, ha segnato un periodo di aspri conflitti politici e sociali, che si sono riverberati in tutte le modalità espressive della scena artistica del paese del Sol levante, danza butō inclusa. La cui cifra di marcata corporeità ha spesso virato verso forme e contenuti ancora più scomodi e controversi – a volte esplicitamente erotici –  per una società nipponica come quella della metà del secolo scorso. Uno sguardo su un mondo che ha ormai le tonalità del bianco e nero, come nel film Vermilion Souls di Masaki Iwana. Girato tutto nella casa francese in Normandia del Maestro, la pellicola mette in scena le giornate di un gruppo di giapponesi, lì riuniti in attesa di qualcosa che non riescono a capire: dal ragazzino delle scuole medie all’anziano malato di lebbra, categoria che ha sofferto di un vero e proprio apartheid nella società nipponica, a un improbabile reduce della Seconda guerra mondiale.

Introdotto da un incontro con Samantha Marenzi, docente al DAMS dell’Università Roma Tre, e da Moeno Wakamatsu, compagna d’arte e di vita di Masaki, che proprio a Palazzo Ducale nella stessa giornata ha messo in scena, in prima nazionale, Consumed by the invisible: 60 minuti di passi sospesi e rarefatti per scendere i sei scalini dell’abside del Salone del Maggior consiglio di Palazzo Ducale sul tappeto di percussioni di Lê Quan Ninh. «Mi piace pensare al danzatore – scrive Wakamatsu – come a un artigiano. Non c’è fine allo studio e alle scoperte sul funzionamento della percezione, sulla nostra fisicità, sulla nostra coscienza». E ancora: «Il cambiamento che alla fine dobbiamo compiere è diventare l’ascolto, diventare lo sguardo. Ogni danza è un viaggio, un invito al viaggio attraverso il sogno. Gran parte del mondo ci è invisibile nella vita ordinaria, ma se e quando scivoliamo nella fessura del tempo, intravediamo le immagini che escono da questo mondo invisibile. Allora, come artisti, crederemo pienamente nell’invisibile e lasceremo che la nostra presenza ne sia consumata».

Prima di lei, nel corso del pomeriggio, gli sviluppi più recenti del butō erano stati esplorati da Alessandra Cristiani nella sua performance MATRICE – DA ANA MANDIETA. Mendieta è un’artista nata a Cuba nel 1948, portata a 13 anni negli Stati Uniti con l’operazione anticomunista Peter Pan, tra campi profughi e adozioni. Sradicamento forzato cui ha reagito con una produzione artistica che va alla ricerca di una madre/patria perduta per sempre, in una sintesi fra body art e land art, con esiti molto forti. Morì nel 1985 cadendo dal 35° piano del grattacielo newyorchese dove abitava con il marito. Alessandra Cristiani nella sua performance rivive la questione del linguaggio e dell’arte di Ana Mendieta, andando alla «matrice, ossia alla foce di se stessi. Il corpo come Mater – sono le sue parole – condizione generativa e trasformativa. Luogo attraversato e attraversabile, infinite le sue nature, indecifrabili i suoi sigilli. Con pudore cercare la via per retrocedere alla sorgente, nella visione di un corpo originario e salvifico, colmo e cavo, nell’utopia di una terra lentissima e propizia. Cerco nella performance una strategia esistenziale, la ritualità di un viaggio che possa ricongiungermi a un innato sapere percettivo, all’innesco delle forze primarie, alle loro pulsioni vitali. La corporeità radica. È qualcosa che battezza, che intrappola, che libera. Desidero la concretezza della sua lingua».

La Sala del Minor consiglio aveva visto invece Corpo d’acqua di Stefano Taiuti, un’indagine sull’avanzare dell’oscurità, l’entrare nell’acqua, il venire alla luce, il sostare e il tornare nell’ombra.

Realizzata col patrocinio di Consolato Generale del Giappone a Milano e Istituto Giapponese di Cultura in Roma, la giornata di studi è un unicum assoluto nel panorama nazionale e un tassello indispensabile, dal 2018, del programma del Festival che è consultabile qui nella sua interezza.

 

 

 

 

 

 

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