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No, Garcia Marquez non ha scritto Samarcanda

Tutto quello che il Nobel colombiano non ha mai scritto ma che la rete gli attribuisce

La fabbrica digitale del falso non poteva risparmiare Gabriel Garcia Marquez moltiplicando e rimbalzando testi apocrifi attribuiti al Nobel per la letteratura come racconti, poesie, comunicati stampa e persino “lettere d’addio”.

Un trend che cresce ogni anno con l’approssimarsi del 6 marzo (il compleanno di García Márquez) e del 17 aprile (quando si commemora la sua morte). La più recente fake è stata segnalata dal Centro Gabo, progetto pubblico-privato-accademico stimolato dalla Fundacion dedicata allo scrittore colombiano per generare processi di appropriazione sociale della conoscenza, “basati sulla commovente eredità di Gabriel García Márquez”. Si tratta di un piccolo testo che finge di essere tratto dal romanzo Cento anni di solitudine:

“La graduale assenza del tuo interesse per me, la progressiva mancanza dei tuoi ‘Buongiorno’, la scelta egoistica della tua lontananza, erano ciò che determinava che non era nemmeno necessario viaggiare fino a Macondo; bastava baciare le tue labbra per sentire… cento anni di solitudine”.

Per sembrare convincente, il frammento è accompagnato da un’illustrazione dell’artista cilena Luisa Rivera, incaricata di disegnare le immagini dell’ultima edizione illustrata di Cent’anni di solitudine pubblicata da Penguin Random House.  Ma rileggendo la saga dei Buendía a Macondo  si scopre che nessun personaggio fa una simile affermazione. Inoltre, la frase “cento anni di solitudine” con cui si conclude l’imbroglio è usata da García Márquez solo verso la fine del suo libro (“…perché le stirpi condannate a cento anni di solitudine non avevano una seconda possibilità sulla terra”). È inoltre importante notare, avverte il Centro, che il narratore, il tono e la costruzione poetica del frammento non corrispondono a quelli del romanzo.

Se è un segno come molti altri della presenza di Gabo nell’immaginario di milioni di lettori, queste imprese di disinformazione non fanno bene alla memoria collettiva. Saranno gli studiosi di leggende metropolitane a spiegarci, prima o poi, la genesi di questi falsi.

Morte a Samarra, uno dei testi brevi più diffusi con il nome di García Márquez – una trama in cui un servo non può sfuggire alla morte – è più antica dello scrittore colombiano. La sua origine risale ai racconti del Talmud e del sufismo. Questa microstoria fu enunciata dal sufi Fudail ibn Iyad in un’opera intitolata Hikayat-I-Naqshia (“Storie formate secondo un’intenzione”). Fu seguita da altri autori come Yalal ad-din Rumi, Abdallah ibn Omar Beidhavi, William Somerset Maugham e Pieter Nicolaas van Eyck. Forse la versione più famosa in Occidente è quella di Jean Cocteau nel suo romanzo Le Grand écart, pubblicato nel 1923.

L’attribuzione fuorviante del racconto – secondo il Centro Gabo – è dovuta al fatto che lo scrittore colombiano l’ha citato in uno dei suoi seminari di cinema per riferirsi a “storie di quindici minuti che possono essere raccontate [in televisione] più rapidamente”, e che in seguito è stato incluso nel libro Cómo se cuenta un cuento (1995) della Escuela Internacional de Cine y Televisión de San Antonio de los Baños (Scuola internazionale di cinema e televisione di San Antonio de los Baños). Da quel momento ha iniziato a circolare come se ne fosse l’autore.

Il servo arriva terrorizzato a casa del padrone.

-Signore”, dice, “ho visto la Morte al mercato e mi ha fatto un segno minaccioso”.

Il padrone gli dà un cavallo e del denaro e gli dice:

-“Fuggi a Samarra”.

Il servo fugge. Nel primo pomeriggio, il padrone incontra la Morte nella piazza del mercato.

-Stamattina hai fatto un segno di minaccia al mio servo”, gli dice.

-Non era una minaccia”, risponde la Morte, “ma un segno di sorpresa. Perché l’ho visto lì, lontano da Samarra, e proprio oggi pomeriggio devo andare a prenderlo.

Vi ricorda qualcosa? Samarcanda di Vecchioni, brano del ’77, che come riportato nell’interno della copertina e anni dopo in un’intervista a cura di Vincenzo Mollica, è ispirata ad una favola orientale presente nell’incipit del romanzo Appuntamento a Samarra di John Henry O’Hara e nelle Storie di Maghrebinia di Gregor von Rezzori e, ovviamente, nel Talmud.

Il ladro del sabato, invece, è la trama di una sceneggiatura scritta dalla regista messicana Consuelo Garrido. Il titolo originale era “Ladrón de noche”, ma fu cambiato in “Ladrón de sábado” su suggerimento di García Márquez durante uno dei suoi laboratori di narrazione in Messico.

Il racconto è stato realizzato per la televisione nel 1991 come parte della serie Con el amor no se juega, una produzione composta da tre cortometraggi di meno di mezz’ora (“Ladrón de sábado”, “El espejo de dos lunas” e “Contigo en la distancia”). La sceneggiatura finale è stata scritta da Consuelo Garrido e García Márquez. “Mi piace ‘Ladrón de sábado’ perché, anche se non sembra una sceneggiatura molto originale, lo è: non ricordo di aver letto quella storia prima, né di averla mai vista”, ha detto Gabo in Cómo se cuenta un cuento. “Si immagina cosa succederà, ma non importa, perché è ben raccontata. È raccontata con il tono che la storia richiede”.

La storia che di solito si trova su Internet è la trama generale scritta da Garrido:

Hugo, un ladro che ruba solo nei fine settimana, si introduce in una casa il sabato sera. Ana, la proprietaria, una bella trentenne, irriducibile insonne, lo scopre sul fatto. Minacciata con una pistola, la donna gli consegna tutti i gioielli e gli oggetti di valore e gli chiede di stare lontano da Pauli, la figlia di tre anni. Tuttavia, la bambina lo vede e lui la conquista con alcuni trucchi di magia. Hugo pensa: “Perché andarsene così presto, visto che qui si sta così bene?” Potrebbe rimanere tutto il fine settimana e godersi appieno la situazione, perché il marito – lo sa perché li ha spiati – non torna dal suo viaggio di lavoro fino a domenica sera. Il ladro non ci pensa due volte: indossa i pantaloni del padrone di casa e chiede ad Anna di cucinare per lui, di prendere il vino dalla cantina e di mettere un po’ di musica per la cena, perché senza musica non può vivere.

Ana, preoccupata per Pauli, pensa a qualcosa per far uscire il ragazzo dalla casa mentre prepara la cena. Ma non può fare molto perché Hugo ha tagliato i fili del telefono, la casa è troppo lontana, è buio e non ci arriverà nessuno. Ana decide di mettere un sonnifero nel bicchiere di Hugo. Durante la cena, il ladro, che durante la settimana fa il guardiano notturno di una banca, scopre che Ana è la conduttrice del suo programma radiofonico preferito, il programma di musica popolare che ascolta ogni sera, immancabilmente. Hugo è un suo grande ammiratore e mentre ascoltano il grande Benny che canta Cómo fue su una cassetta, parlano di musica e di musicisti. Ana si pente di averlo addormentato perché Hugo si comporta in modo tranquillo e non ha intenzione di farle del male o di violentarla, ma è troppo tardi perché il sonnifero è già nel bicchiere e il ladro lo beve tutto d’un fiato. Tuttavia, c’è stato un errore, ed è stata lei a prendere il bicchiere con la pillola. Anna si addormenta in un attimo.

Il mattino seguente Ana si sveglia nella sua camera da letto, completamente vestita e ben coperta da una coperta. In giardino Hugo e Pauli stanno giocando, dopo aver finito di preparare la colazione. Anne è sorpresa di quanto vadano d’accordo. Le piace anche il modo in cui il ladro cucina, e dopotutto è piuttosto attraente. Ana inizia a provare una strana felicità.

In quel momento passa un amico che la invita a pranzo. Hugo si innervosisce, ma Ana si inventa che la bambina è malata e la manda via immediatamente. Così i tre restano a casa insieme per godersi la domenica. Hugo ripara le finestre e il telefono che ha rotto la sera prima, mentre fischietta. Ana scopre che lui è un bravo ballerino di danzón, un ballo che lei ama ma che non riesce mai a praticare con nessuno. Lui propone loro di ballare un pezzo e si trovano così bene che ballano fino a pomeriggio inoltrato. Pauli li guarda, applaude e alla fine si addormenta. Arrendevoli, finiscono per sdraiarsi su una poltrona del salotto.

Ormai hanno perso la testa, perché è ora che il marito torni. Nonostante Ana resista, Hugo restituisce quasi tutto ciò che aveva rubato, le dà alcuni consigli su come tenere i ladri lontani dalla loro casa e saluta le due donne con non poca tristezza. Ana lo guarda allontanarsi. Hugo sta per scomparire e lei lo chiama. Quando lui torna, lei gli dice, guardandolo dritto negli occhi, che il prossimo fine settimana suo marito partirà per un altro viaggio. Il ladro del sabato sera se ne va felice, ballando per le strade del quartiere mentre cala la notte.

 

Nel 2018, la scrittrice portoricana Marisel Hilerio Rivera ha concepito una storia, divenuta virale quando l’ha postata sui suoi social network. Nel diffondere la storia qualcuno ha cambiato il suo nome e lo ha sostituito con quello di García Márquez. Da allora, “Las sandalias negras” sta facendo il giro del mondo con la firma del romanziere colombiano.

Due anni dopo, in piena pandemia, su una catena whatsapp è stato perfino spacciato un vademecum per affrontare la quarantena che, naturalmente non era del Nobel colombiano e dunque nemmeno ricavato da L’amore ai tempi del colera: si tratta di un dialogo tra il capitano di una nave e un cameriere scritto dall’italiano Alessandro Frezza, appassionato di mitologia, PNL, esoterismo, scienze di frontiera, culti misterici delle antiche civiltà ed ordini iniziatici dunque diametralmente lontano dal “nostro”, il cui realismo magico è allergico alle frottole dell’esoterismo. Un dialogo che ha fatto il giro del mondo, venendo erroneamente attribuito anche a Jung (poiché apparso su un gruppo fb di junghiani) ed Hemingway.

“Capitano, il mozzo è preoccupato e molto agitato per la quarantena che ci hanno imposto al porto. Potete parlarci voi?”

“Cosa vi turba, ragazzo? Non avete abbastanza cibo? Non dormite abbastanza?”

“Non è questo, Capitano, non sopporto di non poter scendere a terra, di non poter abbracciare i miei cari”.

“E se vi facessero scendere e foste contagioso, sopportereste la colpa di infettare qualcuno che non può reggere la malattia?”

“Non me lo perdonerei mai, anche se per me l’hanno inventata questa peste!”

“Può darsi, ma se così non fosse?”

“Ho capito quel che volete dire, ma mi sento privato della libertà, Capitano, mi hanno privato di qualcosa”.

“E voi privatevi di ancor più cose, ragazzo”.

“Mi prendete in giro?”

“Affatto… Se vi fate privare di qualcosa senza rispondere adeguatamente avete perso”.

“Quindi, secondo voi, se mi tolgono qualcosa, per vincere devo togliermene altre da solo?”

“Certo. Io lo feci nella quarantena di sette anni fa”.

“E di cosa vi privaste?”

“Dovevo attendere più di venti giorni sulla nave. Erano mesi che aspettavo di far porto e di godermi un po’ di primavera a terra. Ci fu un’epidemia. A Port April ci vietarono di scendere. I primi giorni furono duri. Mi sentivo come voi. Poi iniziai a rispondere a quelle imposizioni non usando la logica. Sapevo che dopo ventuno giorni di un comportamento si crea un’abitudine, e invece di lamentarmi e crearne di terribili, iniziai a comportarmi in modo diverso da tutti gli altri. Prima iniziai a riflettere su chi, di privazioni, ne ha molte e per tutti i giorni della sua miserabile vita, per entrare nella giusta ottica, poi mi adoperai per vincere.

Cominciai con il cibo. Mi imposi di mangiare la metà di quanto mangiassi normalmente, poi iniziai a selezionare dei cibi più facilmente digeribili, che non sovraccaricassero il mio corpo. Passai a nutrirmi di cibi che, per tradizione, contribuivano a far stare l’uomo in salute.

Il passo successivo fu di unire a questo una depurazione di malsani pensieri, di averne sempre di più elevati e nobili. Mi imposi di leggere almeno una pagina al giorno di un libro su un argomento che non conoscevo. Mi imposi di fare esercizi fisici sul ponte all’alba. Un vecchio indiano mi aveva detto, anni prima, che il corpo si potenzia trattenendo il respiro. Mi imposi di fare delle profonde respirazioni ogni mattina. Credo che i miei polmoni non abbiano mai raggiunto una tale forza. La sera era l’ora delle preghiere, l’ora di ringraziare una qualche entità che tutto regola, per non avermi dato il destino di avere privazioni serie per tutta la mia vita.

Sempre l’indiano mi consigliò, anni prima, di prendere l’abitudine di immaginare della luce entrarmi dentro e rendermi più forte. Poteva funzionare anche per quei cari che mi erano lontani, e così, anche questa pratica, fece la comparsa in ogni giorno che passai sulla nave.

Invece di pensare a tutto ciò che non potevo fare, pensai a ciò che avrei fatto una volta sceso. Vedevo le scene ogni giorno, le vivevo intensamente e mi godevo l’attesa. Tutto ciò che si può avere subito non è mai interessante. L’attesa serve a sublimare il desiderio, a renderlo più potente.

Mi ero privato di cibi succulenti, di tante bottiglie di rum, di bestemmie ed imprecazioni da elencare davanti al resto dell’equipaggio. Mi ero privato di giocare a carte, di dormire molto, di oziare, di pensare solo a ciò di cui mi stavano privando”.

“Come andò a finire, Capitano?”

“Acquisii tutte quelle abitudini nuove, ragazzo. Mi fecero scendere dopo molto più tempo del previsto”.

“Vi privarono anche della primavera, ordunque?”

“Sì, quell’anno mi privarono della primavera, e di tante altre cose, ma io ero fiorito ugualmente, mi ero portato la primavera dentro, e nessuno avrebbe potuto rubarmela piu”.

Le bufale, spesso, sono verosimili e a volte ci cascano anche persone rispettabili. Come accaduto a Ivan Della Mea che segnalò questa storia all’allora direttore di Liberazione, Sandro Curzi. Chi scrive fu testimone di una loro telefonata a proposito durante una riunione di redazione. A loro (a nostro) discapito tutto ciò accadde agli albori dell’era internet, quando quasi nessuno era capace di padroneggiare la velocità di propagazione delle notizie, soprattutto quelle false. Il linfoma diagnosticato a García Márquez nel 1999 ha fatto circolare la voce che la vita del Premio Nobel colombiano stesse per finire. Le caselle di posta elettronica si riempirono rapidamente di una lettera d’addio attribuita a Gabo. Con una sdolcinatezza più tipica delle telenovele che di un romanziere, il documento parla di vivere senza rimpianti né legami. A volte appare su Internet sotto forma di poesia, e molti dei suoi versi – o “strofe” – sono stati segmentati per produrre decine di frasi false di Gabo.

Un altro testo fu diffuso, come questo, tramite e-mail e catene di Power Point con il titolo “La marioneta” (La marionetta). Narrava il lamento in prima persona di un burattino morente che avverte coloro che sono ancora nel gioco della vita di goderne appieno.

Quando il suo autore – il comico e ventriloquo messicano Johnny Welch – iniziò a rappresentarlo nei suoi spettacoli, García Márquez era in cura, appunto, in un ospedale di Los Angeles e qualcuno ebbe l’idea di inventare che “La marionetta” fosse l’addio dello scrittore colombiano. Gabo ha smentito la bufala in una piccola conferenza stampa. “Voglio dire che sono vivo – disse – e che l’unica cosa che potrebbe uccidermi è che dicano che ho scritto qualcosa di così banale”. Per la cronaca, tra i due ci fu un chiarimento.

Infine (per ora), nell’estate del 2022 ha circolato con insistenza un testo malinconico sulle sfide della genitorialità e sulla sindrome del nido vuoto, attribuito a GGM ma introvabile in nessuna delle sue opere letterarie, giornalistiche o autobiografiche, né nelle sue interviste e nei suoi discorsi. Sebbene non abbia un titolo specifico, in alcune catene WhatsApp e blog si può trovare con il nome di “Cuando los padres se quedan huérfanos” (Quando i padri diventano orfani). Lo scritto, a volte in prosa e a volte in versi liberi, tratta del disagio e della nostalgia provati dai genitori quando i figli crescono e lasciano la casa per prendere le redini della loro vita adulta. E’ probabile che l’abbia scritto Jorge Romero Montañez il 12 maggio 2003 su El Siglo de Torreón, un giornale dello stato di Coahuila in Messico. Da allora, il testo è stato riprodotto su Internet con la firma di García Márquez o attribuito a un autore anonimo. Nel 2015, con il titolo fuorviante di “Cuando los padres se quedan huérfanos” (Quando i genitori diventano orfani), il racconto è tornato ad essere virale grazie al giornalista argentino Beto Casella, che lo ha letto integralmente durante il suo programma televisivo Bendita.

Al Centro Gabo fanno notare che, sebbene García Márquez non abbia scritto questo testo, l’idea dei padri orfani dei figli non è estranea alla sua produzione letteraria. Nel romanzo El coronel no tiene quien le escriba, quando il colonnello si sta vestendo, commenta alla moglie che le sue vecchie scarpe sembrano quelle di un orfano. La moglie, che ricorda sempre il figlio Agustín (fucilato nel pollaio del villaggio per aver diffuso informazioni clandestine), risponde: “siamo orfani di nostro figlio”.

Siete alla ricerca di citazioni autentiche di García Márquez?

Al Centro Gabo si fa ricerca sulla vita e l’opera di Gabriel García Márquez con il massimo rigore possibile. Se cercate citazioni autentiche e riflessioni di Gabo sulla sua vita e sul suo universo narrativo, questi articoli potrebbero interessarvi:

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