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Il governo decide di tassare i profitti delle banche

La misura, che riprende una proposta dell’opposizione, è destinata però a finanziare tagli fiscali [Romaric Godin]

L’Italia ha annunciato, con grande sorpresa, una tassa sui superprofitti delle banche. La decisione è stata presa martedì 8 agosto dal governo di estrema destra guidato da Giorgia Meloni. La nuova tassa potrebbe raccogliere due miliardi di euro entro il 2024.

In base alla misura, le banche saranno tassate al 40% non sui loro profitti, ma sul loro margine di interesse netto, cioè la differenza tra gli interessi che ricevono dai loro clienti e quelli che pagano. La tassa si applicherà al 2022 se il margine netto avrà superato il livello del 2021. Sarà quindi retroattiva.

Nel 2022, le cinque maggiori banche italiane (Intesa Sanpaolo, Unicredit, BPER, Banco BPM e Monte dei Paschi di Siena) hanno realizzato un utile combinato di quasi 12 miliardi di euro, di cui 4 miliardi di euro potrebbero essere spiegati dai margini di interesse. Solo nel primo semestre del 2023, questo utile cumulato ha raggiunto i 10,5 miliardi di euro, con un aumento del 64% in un anno.

Con l’aumento dei tassi di interesse da parte della BCE, che negli ultimi tre anni ha portato il tasso di rifinanziamento dallo 0% al 4,25% e il tasso sui depositi dal -0,5% al 3,75%, i profitti derivanti dagli interessi attivi hanno continuato a crescere per le banche europee. In Italia, dove il governo è alla ricerca di entrate per finanziare i suoi tagli fiscali e per mostrare ai mercati le proprie carte, l’idea di una tassa una tantum sulle banche si sta sviluppando da diversi mesi.

Il governo ha accolto una proposta presentata tre settimane fa da dieci deputati del Partito Democratico, partito di opposizione di centro-sinistra. Si tratta di un modello leggermente meno ambizioso della tassa imposta in Spagna alla fine del 2022. L’imposta spagnola era più ampia e imponeva un’aliquota del 4,8% su tutti i margini di interesse e le commissioni. L’obiettivo è recuperare 3 miliardi di euro.

L’effetto a cascata dell’aumento dei tassi di interesse sulle banche

L’annuncio ha avuto un impatto immediato sui prezzi delle azioni delle principali banche italiane, che a Milano hanno perso tra l’8 e il 10% nel primo pomeriggio di martedì. Un effetto logico, visto che le aspettative di profitto delle banche dovranno essere riviste al ribasso. Secondo i calcoli di alcune società di investimento, l’effetto negativo dell’imposta sugli utili delle principali banche italiane potrebbe arrivare al 10%.

Qualcuno potrebbe preoccuparsi dell’effetto di questa tassa sulla solidità del settore bancario italiano, che solo pochi anni fa era uno dei più fragili. Ma l’entità dei profitti realizzati e il basso livello dell’imposta screditano completamente questa argomentazione.

In realtà, gli investitori temono che questa misura diventi un obbligo per i governi di ogni tipo in questi tempi di stretta monetaria. Perché, in realtà, questa tassa non è un problema per i governi. Quando i tassi di interesse aumentano, la pressione del mercato sui governi aumenta. Questo è particolarmente vero per un Paese come l’Italia, che è tradizionalmente considerato da alcuni investitori come “l’anello debole” dell’eurozona.

Allo stesso tempo, l’aumento dei tassi d’interesse è una manna per i profitti delle banche. Poiché questi profitti, oltre un certo livello, sono di dubbia utilità per la collettività e non contribuiscono a offrire migliori condizioni di finanziamento alle imprese e alle famiglie, è normale che gli Stati ne catturino una parte. In un certo senso, questo è un modo per riprendersi parte del denaro generato dall’aumento dei tassi delle banche centrali, anche se le condizioni di finanziamento si restringono.

Da questo punto di vista, gli unici governi che possono rifiutare questo tipo di tassa sono quelli la cui politica, come in Francia, è quella di difendere l’accumulazione incondizionata del capitale. Ecco perché vediamo sia governi di sinistra, come in Spagna, sia governi di estrema destra, come in Italia, ricorrere a questo tipo di azione.

Una cosa è ormai certa: la difesa da parte del governo francese dei tagli fiscali generalizzati che persegue dal 2017 appare sempre meno sostenibile. L’anno scorso, il governo britannico, molto conservatore, ha annunciato un aumento dell’imposta sulle società e l’effimera premier Lizz Truss è stata addirittura estromessa dal potere a causa della sua volontà di tagliare radicalmente le tasse senza compensazioni.

Ora, la versione dello “sgocciolamento” (il trickle-down) che Bruno Le Maire ed Emmanuel Macron continuano a difendere con le unghie e con i denti non funziona più. Questo dimostra quanto siano diventati radicali. Ora è difficile credere che tagliare le tasse sia sufficiente a generare crescita. I tagli alle tasse devono essere almeno in parte finanziati. L’effetto trickle-down sta diventando condizionato e mirato. Questa è senza dubbio una delle nuove forme di neoliberismo.

Il golpe politico della Meloni

In questo contesto, un esecutivo di estrema destra come quello di Giorgia Meloni non ha difficoltà a ricorrere a una tassa eccezionale sulle banche. In primo luogo, perché è in linea con la tradizione del suo campo di colpire il settore finanziario non come sintomo dell’evoluzione del capitalismo, ma come causa della deviazione del capitalismo. È con questa retorica che, nel 2010, poco dopo essere salito al potere, il primo ministro ungherese Viktor Orbán, uno dei mentori del primo ministro italiano, ha introdotto una tassa sulle banche.

Certo, in una maggioranza dove risiede parte della destra neoliberista classica, il provvedimento non è stato approvato all’unanimità all’interno del governo. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, ex ministro dello Sviluppo economico di Mario Draghi, non ha partecipato alla conferenza stampa. Nei giorni scorsi aveva smentito qualsiasi progetto di tassa sulle banche. Ma in un’intervista al Corriere della Sera dell’8 agosto, il leader della destra berlusconiana, Antonio Tajani, ha difeso la misura.

Anche dal punto di vista politico, l’operazione è piuttosto ben giocata. Raccogliendo una proposta dell’opposizione popolare che è stata difesa per mesi da una delle sue formazioni, il Movimento 5 Stelle (M5S), Giorgia Meloni è riuscita a creare una sorta di unanimità intorno a sé, anche se ha dovuto affrontare critiche feroci sul tema della fine del reddito di cittadinanza.

La vera questione ora è come verranno utilizzati i fondi di questa misura. Su questo punto del provvedimento ci sono ancora dubbi, e bisognerà aspettare la presentazione del progetto di bilancio per saperne di più. Ma le strade sono già state tracciate: i soldi saranno utilizzati per finanziare sgravi fiscali e per aiutare le famiglie ad accedere ai mutui per la casa. Per inciso, va notato che le banche non ci rimetteranno del tutto: lo Stato sosterrà la domanda di prestiti e quindi la loro attività.

Non è quindi in discussione che il governo Meloni utilizzi questi fondi per migliorare i servizi pubblici, nonostante le loro difficoltà, o per promuovere la redistribuzione sociale. Roma ha appena risparmiato tre miliardi di euro sui più poveri con la fine del reddito di cittadinanza, e non c’è alcuna intenzione di cambiare la sua posizione sul fronte sociale. L’aumento delle tasse finanzierà quindi i tagli fiscali. Questo è forse il credo del nuovo liberismo, che organizza una forma di redistribuzione all’interno del capitale verso alcuni settori piuttosto che altri.

Infine, questa misura rappresenta anche una sfida per la sinistra. Il Partito Democratico e il M5S sono stati messi in forte imbarazzo l’8 agosto da un provvedimento che ha tolto loro il vento. Giuseppe Conte, leader del M5S, ha dichiarato: “Meglio tardi che mai, ma il ritardo lo pagano le famiglie”. Il che è discutibile, visto che la tassa è retroattiva.

In realtà, il caso italiano dimostra che la questione della tassa sui superprofitti non è sufficiente da sola. Deve essere accompagnata da un piano sottostante e da un utilizzo mirato. È qui che tale tassa potrebbe distinguersi da quelle introdotte dai governi populisti di destra. Più in generale, una tassa di questo tipo può essere solo una pratica “correttiva” e non può costituire la spina dorsale di una politica economica redistributiva. Ora dobbiamo essere consapevoli dei cambiamenti in atto all’interno del neoliberismo stesso. Concentrarsi eccessivamente su questo strumento è quindi rischioso, perché può essere sfruttato politicamente dalle frange più conservatrici.

 

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