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Archivio Popoff: Genova e De André

Un articolo ripreso da un vecchio numero del quotidiano Liberazione. La città celebrava il suo poeta mancato dieci anni prima

Genova, 9 gennaio 2009 «A me pare – diceva De André – che Genova abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei suoi carrugi, gli esclusi che avrei ritrovato in Sardegna ma che ho conosciuto per la prima volta nelle riserve della città vecchia». Domani, quando decine di stazioni radio suoneranno contemporaneamente la stessa canzone, saranno dieci anni che la sua assenza s’è fatta assedio [parole prese in prestito, come accadrà spesso in questo articolo, stavolta dal cantautore Piero Ciampi, “ultimo” anche lui]. E da dieci giorni Genova lo celebra con una splendida mostra al Ducale che durerà fino al 3 di maggio. Si tratta di una narrazione multimediale e interattiva che si snoda al piano terra di quello che si può considerare il centro della città. Città verticale e di frontiera come Despina, città dei sogni come Isadora (entrambe città invisibili calviniane). Città dove accade che proprio durante l’inaugurazione della mostra venga scoperto un quarantaquattrenne nepalese, Babu Raja, ucciso dal freddo e dalla miseria mentre si riparava sotto i portici del teatro Carlo Felice, altra location, a pochi passi dal Ducale, di concerti dedicati alla celebrazione.

Dalla stazione di Sant’Ilario, dismessa da Ferrovie e ora abitata da una famiglia felice, fino a Via del Campo, Genova parla spesso di Faber anche quando cerca di cancellarne le tracce. Il paradosso è proprio qui: De André funziona da richiamo perché è uno – e rubo a Nick Hornby – che sapeva come ti sentivi e lo cantava. Ma la città di sopra continua a divorare la città di sotto. La gentrification prosegue implacabile. E, allora, in Via del Campo c’è una gelateria che ha ribattezzato l’assortimento con i nomi dei brani del cantautore. A Sant’Ilario (che è un borgo di Nervi), mezzo appannato di brina, c’è un acrostico di Max Manfredi, un altro della scuola genovese, a ricordare che Bocca di Rosa sarebbe scesa lì dal suo treno. Le mura esterne della Fnac di Via Venti, altra arteria pulsante, sono tappezzate di foto preziose dell’autore. E Gianni Tassio, prima di morire anche lui, era riuscito a far bello il suo negozio di dischi in Via del Campo con “antichità” originali. Tra quei dischi, alla vigilia dell’immane bagno di sangue del G8, uno scrittore contemporaneo tra i più acuti (si ripeschi dagli scaffali Cosa cambia di Roberto Ferrucci scritto per Marsilio), riconobbe, o credette di riconoscere, Francesco Gratteri, il più alto in grado la notte della Diaz, che firmava solo con il nome il librone di Tassio dopo aver preso un cd del poeta prediletto di più di una generazione a giudicare dai biglietti staccati al botteghino del Ducale. Quasi 11mila nei primi quattro giorni. Più di Rubens e chiunque altro abbia avuto l’onore di sale dedicate nel palazzo che fu dei dogi se si eccettua Van Dyck, pittore del ‘600 fiammingo, che attirò più di 17mila visitatori nelle prime 96 ore di apertura. Ma allora, spiegano alla Fondazione Genova Palazzo Ducale (che ha promosso, con la Onlus Fondazione De André, la mostra progettata da Studio Azzurro), c’era stata una grossa prevendita aiutata anche dall’allestimento di una sorta di albo dei sostenitori. Stavolta non ce n’era bisogno. Anche il custode di Staglieno, il camposanto, ha un foglietto in bacheca con i numeri che consentono di identificare le tombe più richieste dai visitatori. Una è proprio quella di Faber, in una anonima e signorile cappella di famiglia. L’altra è quella di Carlo Giuliani, in alto, in periferia. E chi non ha trovato, in quei giorni infami, versi di De André nella memoria per dare un senso all’orrore di Tolemaide? «Il potere che cercava il nostro rumore mentre uccideva nel nome di Dio. Nel nome di Dio uccideva un uomo».

Dalla Buona Novella alla Storia di un impiegato si fa buona pesca di versi. Sono stati scritti sugli striscioni, sono stati ricantati negli anni appresso a ogni ricordo di Carlo.

Riaffiorano tutti nel sottofondo musicale, inevitabile, per una mostra allestita senza suddivisioni rigide e con molte trovate interattive a partire dai grandi temi della poetica di De André spiegati su sei schermi trasparenti larghi due metri e alti uno (la società del benessere, il boom economico, gli emarginati e i vinti, l’anarchia e la libertà, l’amore, la guerra, la morte e Genova) fino all’originale contestualizzazione di ciascuno dei dischi attraverso pannelli dalle dimensioni di un long playing che, una volta posizionati sul tavolo, consentono di accedere a una narrazione video sulla produzione di ciascun disco e sul clima dell’epoca in cui vide la luce.

A voler trovare una stonatura ci sono certe ossessioni del critico rock Riccardo Bertoncelli (immortalato dall’Avvelenata di Guccini), sugli anni Settanta visti unicamente come anni di piombo. Ma ci si distrae facilmente da quei luoghi comuni grazie alla calligrafia di de André sui testi e sui cimeli alle pareti e, ancora, le pillole video della sua vita, il gioco dei tarocchi coi suoi personaggi e il rullo di canzoni dal vivo lungo cinque ore, nell’ultima delle cinque sale, preparato da Vincenzo Mollica.

Inevitabile che al bookshop 1500 copie del catalogo siano andate via come il pane. Esauriti anche i cd di Creuza de mà e la Storia di un impiegato e di una bomba. Inevitabile che la mostra si prolunghi uscendo in Piazza Matteotti, tra i muri che parlano del centro storico, nei quartieri dove il sole del buon dio non dà i suoi raggi. Anzi non li dava, visto che da un po’ alcuni studenti universitari stanno facendo una ricerca sull’intreccio tra una grande immobiliare milanese, l’Opus dei e la massoneria locale all’origine dell’incetta di case nei carruggi a ridosso di Via Garibaldi, la Strada Nuova che divide la città alta da quella bassa. Strada di palazzi signorili, sede del comune, banche e mercanti. A pochi metri brulica un’umanità complessa e varia che stonerebbe per i prossimi inquilini di quei palazzi. Alcuni sono già ristrutturati, hanno citofoni senza nomi e portoni smaltati. Per sfrattare chi era arrivato qui attirato dai prezzi meno disumani basta, a volte, la decisione di ristrutturare la facciata. La rata dei lavori è troppo onerosa per i pensionati, per le famiglie monoreddito, spesso migranti. Per altre tipologie servono gli strumenti più raffinati della politica contemporanea: le campagne sicuritarie per il decoro e l’igiene. Ma così si sfrattano Princesa e Bocca di Rosa, unico presidio di luoghi, o non luoghi, invisibili alla città normale e lasciati marcire.

Come il Ghetto che anticamente richiudeva gli ebrei e oggi è un dedalo di vicoli strettissimi, racchiusi in un quadrilatero alle spalle di Via del Campo. E’ vissuto solo da tossici, trans, immigrati. Le case sono fatiscenti e nei “bassi” si fa la vita o si preparano le rose che un esercito di pakistani venderà la sera nei ristoranti alla moda. La sindaca Marta Vincenzi (Pd), inaugurando la mostra, ha promesso di «usare Fabrizio» per migliorare l’immagine della città. La morte di Babu le è sembrata un «segno stupendo», una coincidenza per riflettere.

Chi riflette senza bisogno di coincidenze, ossia le reti del volontariato, dice che si fa ancora poco per aiutare i senza casa. Oppure ti spiega che le politiche sicuritarie negano il messaggio più profondo di De André: «l’emancipazione degli ultimi». Così dice, in fondo a questa passeggiata, Domenico Chionetti, per tutti u’ Megu (medico), collaboratore di don Gallo nella Comunità di San Benedetto al Porto. L’autoironico calendario delle princese, prodotto da loro, si trova anche sugli scaffali del bookshop del Ducale. E’ servito a far decantare l’idea di trasformare il Quadrilatero in un laboratorio di nuova socialità dove «a cavalcare l’asino c’è rimasto Dio e il Diavolo in cielo e ci si è fatto il nido». L’ultima riga ce l’ha regalata proprio Faber con Creuza de mà.

[da Liberazione del 10 gennaio 2009. Prima di fondare Popoffquotidiano, il “nostro” Checchino Antonini ha lavorato per oltre dieci anni al quotidiano Liberazione, giornale di Rifondazione comunista, la cui edizione cartacea fu chiusa il 31 dicembre 2011, due anni prima di quella telematica]

Fabrizio De André. La mostra

Nel 2009 Palazzo Ducale di Genova ha ospitato la mostra dedicata a Fabrizio De André, nata dalla collaborazione fra il Comune di Genova, Fondazione per la Cultura e Fondazione Fabrizio De André Onlus.

Curata da Vittorio Bo, Guido Harari, Vincenzo Mollica e Pepi Morgia, in collaborazione con il Centro Studi De André di Siena e Mariano Brustio, l’esposizione, progettata da Studio Azzurro, è stata concepita come un vero e proprio viaggio multimediale nella musica, nelle parole e nella vita di Fabrizio De André.

Le tappe

Palazzo Ducale di Genova, 31 dicembre 2008 – 21 giugno 2009
Museo Man di Nuoro, 16 luglio 2009 – 10 gennaio 2010
Museo dell’Ara Pacis di Roma, 24 febbraio 2010 – 30 maggio 2010
Ex Deposito Locomotive Sant’Erasmo di Palermo, 25 giugno 2010 – 24 ottobre 2010
Rotonda di via Besana di Milano, 11 marzo 2011 – 15 maggio 2011

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