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Il governo si fuma le tasse sul fumo

Dubbi in commissione Finanze del Senato sulla legittimità del decreto sulla tassazione delle sigarette. Un altro regalo alle multinazionali delle bionde?

di Massimo Lauria

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Un manipolo di potenti lobbisti delle sigarette ronzano come mosche attorno ai parlamentari, pareri di dubbia imparzialità influenzano l’esecutivo e un decreto difficile da licenziare. È questo il clima nel quale le commissioni Finanze di Camera e Senato devono valutare lo schema di decreto legislativo sulla tassazione dei tabacchi lavorati. Il testo è stato trasmesso dal governo ai parlamentari il 18 agosto scorso per i pareri di rito. Ora sorgono dubbi sulla legittimità di quella norma, che rischia di essere l’ennesimo regalo alle multinazionali delle bionde. Ma a pagare – oltre che in tabaccheria o dal medico – sono ancora una volta gli italiani.

Il piatto piange. Il governo punta ad aumentare le entrate fiscali perse negli ultimi due anni: oltre 500 milioni di euro l’anno. In realtà è uno sconto fatto alle multinazionali – usando la leva fiscale – che hanno aumentato i prezzi, pagando sempre meno tasse. Secondo l’esecutivo gli italiani hanno mandato in fumo 11,5 milioni di chilogrammi in meno di sigarette tra il 2012 e il 2013. Ora il governo mira a recuperare il gap, penalizzando chi vende a prezzi più bassi e premiando chi ha i prezzi alti. Misura anti crisi? A modo suo sì, ma a godere è Big Tobacco e a perderci – oltre che in salute – sono le tasche dei cittadini. I dati dei tecnici parlano di 23 milioni di euro in più per il 2014 e 50 milioni per il 2015.

Si può dare di più, agli italiani. I soldi di questi tempi sono merce rara, che il governo degli 80 euro non disdegna. Perché allora non fare meglio e di più? Avevamo già scritto che «conti alla mano, ogni punto percentuale sull’aliquota della tassa (l’accisa come per la benzina), vale circa 200 milioni di euro». Quindi se l’Italia, paese delle tasse record anche sul respiro, alzasse il parametro ai livelli della Francia (da 58,5% a 64,5%) – allo Stato andrebbero – conti della torinese Yesmoke – 1 miliardo e 400 milioni di euro in più di tasse ogni anno. Questo sì che sarebbe un bel traguardo a favore degli italiani, vessati con ogni tipo di tassa, ma che subiscono – senza accorgersene – gli sconti del governo ai venditori di fumo. Perché, allora, non lo si fa?

Cosa bolle in pentola. A voler leggere i dati per gli addetti ai lavori, si ha l’impressione che dietro gli indugi dell’esecutivo sia in corso una guerra di posizione tra produttori. E che il governo stesso stia cercando di mediare tra i pochi interessi in gioco. E chi ne fa le spese è sempre la gente comune. Perché le istituzioni non si occupano di un interesse collettivo più alto, anziché correre dietro ai capricci dei produttori di bionde? Posto che dietro le sigarette non ci sono nobili obiettivi sanitari – il fumo fa male comunque -, allora la questione diventa di carattere venale. Bisogna chiedere alle multinazionali di pagare le tasse e pagarle fino all’ultimo centesimo.

Cronaca misera. Ad accorgersi che qualcosa in quel decreto non va è la Yesmoke Srl, ascoltata per la prima volta dalla commissione Finanze del Senato il 18 settembre scorso. «È incredibile che nessuno dei tecnici di governo si sia accorto che l’Italia rischia una procedura d’infrazione dall’Unione europea. Hanno aspettato che glielo dicessimo noi?», spara ironico Carlo Messina, patron insieme al fratello dell’azienda piemontese. «Il decreto del governo – spiega – non tiene conto del fatto che l’onere fiscale minimo previsto è assimilabile al precedente prezzo minimo o all’accisa minima penalizzante, norme rispettivamente sanzionate dalla Corte di Giustizia europea e dal Tribunale amministrativo del Lazio». Una doccia fredda per i senatori presenti? Non dubitiamo che anche i torinesi, come Big Tobacco, abbiano i loro interessi in questa faccenda. Ma varrebbe la pena di approfondire, per capire se il governo rischia di farci multare dall’Europa per fare un regalo ai grandi del tabacco.

Il pomo della discordia. I dubbi di legittimità arrivano appunto da quello che l’esecutivo chiama “onere fiscale minimo”. Espressione aliena ai più, ma che tradotto significa “fissare un importo minimo di tassazione” sulle sigarette. A che serve? Secondo il governo a riequilibrare i prezzi delle bionde sul mercato, facendo però salire il prezzo delle sigarette a basso costo, se 4 euro non sono troppi. Secondo altri si fa un regalo ai venditori di fumo, che controllano indisturbati il mercato, pagando meno tasse di quelle che dovrebbero. Chi ha ragione e chi ha torto qualcuno dovrebbe dircelo. Ma chi?

Dubbi di parzialità. Il governo indagherà anche sui dubbi di legittimità o continuerà a fare la spola nella lotta tra bande di bionde? Per lunedì 22 settembre a Montecitorio è prevista un’altra riunione con esperti e produttori. Tra i relatori compare il professor Marco Spallone, del prestigioso Centro Arcelli per gli studi monetari e finanziari (Casmef) dell’Università privata Luiss Guido Carli. I ricercatori del centro hanno redatto un documento per spiegare come l’aumento delle tasse sulle sigarette non porta benefici al nostro Paese e rischia di favorire il contrabbando. È vero? Lo studio – dice lo stesso relatore – è stato finanziato da due multinazionali: la British American Tobacco e la Japan Tobacco International. Nessun dubbio sull’imparzialità della scienza? Gli italiani sono garantiti?

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