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Il caporalato serve a far risparmiare le aziende

Caporalato, parla Antonello Mangano: “Confiscare i beni è solo un primo passo”. Come funziona la filera sporca

Maria Gabriella Lanza, Redattore Sociale

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“Finalmente il Governo ha preso coscienza del fenomeno del caporalato ma aspettiamo di vedere cosa farà in concreto”, Antonello Mangano,fondatore della casa editriceTerre libere, conosce bene la realtà dello sfruttamento lavorativo dei braccianti e per questo sa che fare le leggi non basta se poi non vengono applicate. “I provvedimenti ci sono ma restano sulla carta. La proposta del ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina di confiscare i beni alle aziende coinvolte nel caporalato è un passo in avanti ma bisogna capire fino a che punto verrà estesa la responsabilità solidale dell’azienda: se quest’ultima compra arance raccolte da braccianti sottopagati, anch’essa beneficia in maniera indiretta del lavoro dei caporali”. Tra due settimane il Governo ha promesso di mettere a punto un piano d’azione organico contro questo fenomeno.

Nel rapporto “#FilieraSporca. Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno di Expo”, realizzato dalle associazioni “daSud”, “Terra! Onlus”, “Terrelibere.org”, si ricostruisce un modello produttivo in cui si inseriscono gli interessi della criminalità organizzata: “Pensare che il caporalato sia fuori da ogni contesto economico non ha senso. I caporali esistono perché svolgono un ruolo preciso: organizzano la forza lavoro in maniera rapida e permettono alle aziende di risparmiare. Occorre colpire lo strapotere delle imprese. A pagare il prezzo più alto sono i braccianti che lavorano in condizioni disumane”, continua Mangano. Guadagnano solo 20-25 euro al giorno e questo nonostante i contratti provinciali stabiliscano un salario di 52 euro. “Arrestando qualche caporale non si risolve il problema. La strada più efficace è quella di risalire il vertice della filiera ma finora non è stato fatto per il timore di perdere posti di lavoro. Se si continua in questo modo però tutto il settore dell’agroalimentare andrà presto in crisi: nella mancanza di controlli e nella cancellazione dei diritti c’è sempre chi si arricchisce sulla pelle dei più deboli”.

Per sconfiggere questa piaga servono innanzitutto più controlli. “Molte verifiche si possono fare anche incrociando i dati su internet: basta confrontare i contributi versati all’Inps e la quantità di prodotto. Ci sono aziende in cui risultano assunte solo due persone e producono tonnellate di prodotto. Queste sono incongruenze palesi di cui ci si può accorgere anche senza mandare gli ispettori nei campi. Finora, invece, si è lasciato correre, illudendosi che questo problema riguardasse solo gli immigrati, persone che non hanno peso politico perché non votano. Adesso abbiamo capito che non muoiono solo gli stranieri ma anche gli italiani”.

Chi ha poi il coraggio di rivolgersi alle forze dell’ordine, secondo Mangano, non va lasciato solo: “La nostra legislazione è datata: a chi denuncia viene concesso il permesso di soggiorno. Oggi questo non rappresenta più un incentivo: mediamente due stranieri su tre che lavorano nei campi hanno i documenti in regola. Va data invece la garanzia che non perderanno il lavoro: questa è la loro paura più grande”.

Capire invece se il succo d’arancia o i pomodori che compriamo al supermercato derivano dallo sfruttamento nelle campagne non è ancora possibile. “Noi chiediamo delle etichette narranti in cui sia scritta la storia del prodotto. Vogliamo un elenco pubblico dei fornitori: siamo convinti che solo così si può sconfiggere questo fenomeno”.

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