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Homein fondo a sinistraLabour, arriva Corbyn. Blairismo in soffitta

Labour, arriva Corbyn. Blairismo in soffitta

Col 60% dei voti, Corbyn conquista il partito che fu di Blair. Esultano Fassina, Cuperlo e Vendola ma non sono come lui

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Jeremy Corbyn è il nuovo leader del Labour. Gente come Cuperlo, Fassina o Vendola si congratulano e vogliono sembrare come lui ma, come leggerete più avanti, Corbyn non gli somiglia per niente, o pochissimo: è sempre stato contro tutte le guerre e contro le privatizzazioni. E, come primo passo, ha convocato una grande manifestazione antirazzista e in solidarietà con chi fugge. Possono dire altrettanto personaggi che hanno condiviso gli orrori dei governi Prodi, Letta e Monti?

Il Labour britannico si toglie la cravatta e torna a sventolare la bandiera rossa. Jeremy Corbyn, 66 anni, deputato di vecchia scuola socialista, è da oggi il nuovo leader del partito che fu del suo arci-nemico Tony Blair. Grazie a una piattaforma capace di intercettare – oltre gli scampoli di nostalgia – la nausea per gli effetti delle politiche di austerità che sale anche e soprattutto fra i giovani, ha dato vita a un terremoto in piena regola, suggellato da un voto a valanga del tutto inatteso solo 2 mesi fa. Invocando parole come «giustizia» e «uguaglianza», predicando un no senza compromessi alla guerra e l’accoglienza senza riserve ai rifugiati, Corbyn ha letteralmente sbaragliato la concorrenza per la successione a Ed Miliband, al di la’ dei pur rosei sondaggi delle ultime settimane. La Conferenza di Westminster lo ha proclamato eletto al primo turno, dopo lo spoglio dei voti di mezzo milioni fra iscritti e simpatizzanti, con quasi il 60%. Al palo sono rimasti invece i tre rivali, più moderati e graditi all’establishment: Andy Burnham, Yvette Cooper e la blairiana di ferro Liz Kendall, umiliata al 4,5%.

Un risultato indiscutibile che allo stesso tempo rappresenta «la più grande sorpresa della storia politica moderna del Regno Unito» nelle parole di Owen Jones, giovane commentatore del Guardian. Risultato che – sebbene tutto da consolidare in seno a una nomenklatura di partito profondamente divisa – potrebbe cambiare la geografia della sinistra europea: allargando da Paesi in crisi come la Spagna di ‘Podemos’ o la Grecia di ‘Syriza’ alla ricca Gran Bretagna il fronte di chi non si accontenta più delle ricette ‘modernizzatrici’ degli anni ’90. Salendo sul palco della vittoria, dopo una vita trascorsa nelle retrovie in veste di ‘signornò’ e una candidatura che all’inizio era apparsa di nicchia o di bandiera, Corbyn non ha del resto rinnegato nulla della sua immagine. Vestito alla buona, senza cravatta, questo irriducibile militante entrato in parlamento nel 1983 ha ringraziato tutti e ha rivolto un appello all’unità. Ma sul programma non si è tirato indietro.

L’austerità introdotta dal governo conservatore di David Cameron «non è giusta, non è necessaria e deve cambiare», ha tuonato fra le ovazioni della sala mentre i sostenitori, giocando sul suo nome, ritmavano lo slogan «Jez we can». Poi ha parlato di un livello di «diseguaglianza grottesca» nel Paese, della necessità di dare «a tutti un’opportunita’ decente», di un partito la cui passione ai suoi occhi è ancora «intatta». Il Labour – ha insistito con il tono di voce a strappi di chi è abituato ai comizi – può rinascere dalle ceneri della «tragedia elettorale» di maggio, attrarre nuove forze e recuperare sostenitori delusi. Lo dimostra, a suo giudizio, l’entusiasmo suscitato dalla campagna per queste primarie (con l’esercito di «16.000 volontari» mossisi dietro di lui).

L’obiettivo deve essere dare «speranza alla gente comune, piena fino all’orlo di ingiustizie e disuguaglianza: la povertà non è inevitabile». Snocciolando le sue parole d’ordine su temi come ambiente, pace, welfare, parità uomo-donna e immigrazione, ha quindi rivendicato il legame «organico» con i sindacati – forza trainante assieme ai nuovi attivisti della sua ascesa e di quella del suo neoeletto vice, Tom Watson, bestia nera dell’editore Rupert Murdoch. Più tardi, come primo impegno pubblico, è intervenuto di fronte a migliaia di persone radunate a Londra per una manifestazione di solidarietà verso i migranti.

Una scelta simbolica. Alla platea, fra pugni chiusi alzati e voci che intonavano il vecchio inno ‘Red Flag’, ha parlato di accoglienza, polemizzando con le destre europee, ma pure con quei media che descrivono «persone disperate come il problema», mentre si tratta di «vittime»: in primo luogo di quelle «guerre» e «bombe» a cui Corbyn negli ultimi 20 anni si è sempre opposto senza eccezione alcuna. Nel Labour le prime reazioni sono parse peraltro miste. Alcuni, pur riconoscendo la portata dilagante della sua vittoria e la sua capacità di risvegliare «entusiasmi ed energie», restano scettici su un programma che prevede fra l’altro la nazionalizzazione delle ferrovie e di altri servizi pubblici, più welfare, la possibile uscita dalla Nato e la permanenza nell’Ue, ma senza ‘arrendersi’ al trattato di libero scambio (Ttip) con gli Usa. Quanto ai Conservatori, liquidano già Corbyn, per bocca del ministro della Difesa Michael Fallon, come «una seria minaccia alla sicurezza nazionale» (per il suo no al controverso nuovo programma nucleare Trident) e «alla sicurezza economica» del Paese. Mentre il populista Nigel Farage (Ukip) evoca lo ‘spauracchio’ delle frontiere aperte all’immigrazione. Ma lui per oggi festeggia, fra giovani e vecchi compagni. «Le cose – non demorde – possono cambiare e cambieranno».

Per tutta la sua lunga carriera politica Jeremy Corbyn è stato un ‘backbencher’, relegato nelle ultime file del Labour alla Camera dei Comuni. Ora il 66enne deputato anti-austerity, che rappresenta da più di trent’anni il collegio londinese di North Islington, diventa leader dell’opposizione laburista e affronterà il primo ministro conservatore David Cameron nel Question Time e in quelle che già si prefigurano come sfide memorabili all’ultima replica. La sua è stata una vita da outsider, in cui ha costruito una immagine da uomo «contro», partecipando a una serie di campagne pacifiste, contro l’inquinamento e l’apartheid, su posizioni sempre opposte rispetto all’establishment, fino ad accettare il dialogo con l’Ira, quando questo era uno scandalo, o coi palestinesi di Hamas e gli sciiti libanesi di Hezbollah.

Nato a Chippenham, nel Wiltshire, è figlio di un ingegnere e di una insegnante di matematica (morta nel 1987), entrambi pacifisti che si erano conosciuti durante la Guerra civile spagnola. Jeremy quindi cresce in un clima di attivismo politico destinato a segnare tutte le sue scelte future. Dopo essere stato funzionario sindacale, nel 1983, a 34 anni, diventa deputato laburista. La sua passione non si attenua nonostante il ruolo istituzionale e lo si ritrova, barba e capelli lunghi, nelle principali manifestazioni della sinistra di quegli anni: in una, in favore del leader sudafricano Nelson Mandela, si fa perfino arrestare. Negli anni dei governi di Margaret Thatcher, Corbyn ha modo di «sfidarla» alla Camera dei Comuni e definisce le sue politiche una «disgrazia» per il Paese. Le sue idee politiche radicali influenzano talora la sua vita privata. Vegetariano, astemio e guidato da uno spirito ambientalista, si è sposato per tre volte: la seconda moglie, di origini italiane, Claudia Bracchitta, gli ha dato tre figli e ha divorziato nel 1999. Si dice che la ragione della separazione sia stata dovuta al fatto che lei voleva mandare uno dei figli alla scuola privata ma che il marito, strenuo difensore dell’istruzione pubblica, si fosse categoricamente opposto. Il welfare è ora uno dei pilasti della piattaforma politica di Corbyn per contrastare la povertà e la diseguaglianza sociale e offrire a tutti un’opportunità. Questo passa attraverso il rifiuto dell’austerità voluta dai Tory per far tornare i conti pubblici. Per questo il neo leader è pronto a un controverso programma di «quantitative easing del popolo» diretto a creare moneta, che molti economisti (ma non Paul Krugman) vedono però come potenzialmente catastrofico. La cosiddetta ‘corbynomics’ punta anche su un massiccio contrasto di elusione ed evasione fiscale, oltre a una maggiore tassazione delle fasce più abbienti. E ancora, la ri-nazionalizzazione di ferrovie e altri servizi pubblici privatizzati. Altrettanto discusse sono le sue idee in politica estera. Chiede una revisione della Nato, è contrario a interventi militari unilaterali. Da veterano del pacifismo fin dagli anni della Guerra Fredda, si oppone ai nuovi sottomarini nucleari Trident. In questo e altri punti appare lontano anni luce da Tony Blair, che lo ha attaccato anche di recente, accusandolo di voler portare il partito al suicidio. Sarà, ma intanto il ‘vecchio’ Corbyn sembra aver mandato definitivamente in pensione il New Labour blairiano.

L’esperimento greco di Syriza, primo governo di sinistra radicale nell’Europa occidentale del dopoguerra, è finito con la spaccatura del partito. Le piroette di Alexis Tsipras, il «fuoco amico» del leader dell’ala radicale Panagiotis Lafazanis e dell’ex ministro delle finanze Yanis Varoufakis, la durezza delle riforme volute da Berlino e dall’Eurozona (nonostante le attenuazioni chieste da Parigi e Roma) potrebbero aver minato la popolarità del premier. La verifica arriverà nel voto anticipato del 20 settembre. Ma intanto il germe della sinistra anti-austerità, che dice «no» ai compromessi, che non vuole più adattarsi a fare da stampella del centro-sinistra-centro che governa l’Europa da 70 anni, si diffonde. Appare questo il senso della trionfale elezione di Jeremy Corbyn a segretario del partito laburista britannico. Una svolta netta, tanto prevista nei sondaggi degli ultimi mesi ma non diagnosticabile fino a maggio scorso, quando sembrava che il Labour avrebbe potuto stringere alle corde se non battere David Cameron. In Italia chi esulta per l’elezione di Corbyn a segretario del partito laburista britannico è Paolo Ferrero. «Rappresenta un ceffone per Blair, Renzi e la Merkel, il partito unico del capitale e delle banche che governa l’Europa», dice il leader del Partito per la rifondazione comunista. Il ceffone c’è, ma al di là delle suggestioni sembra il frutto di una polarizzazione dell’opinione pubblica piuttosto che di una svolta a sinistra. L’elettorato non conservatore, in Grecia e in Spagna ha dato fiducia a Syriza e premiato Podemos – la primavera scorsa – ma si è anche rapidamente ritirato di fronte alle proposte che oggi sembrano troppo radicali. Parlare di nazionalizzazioni, di redistribuzione della ricchezza, di ineguaglianze da correggere – temi che furono programma di governo della DC di Fanfani nell’Italia del boom anni ’60 – spaventa ancora la maggioranza di centrodestra. Ma se è vero che l’ascesa di Corbyn «ribelle di lungo corso», come lo definisce il Washington Post, è probabilmente legata alla richiesta di rinnovamento di un partito che quattro mesi fa ha perso malamente le elezioni e quindi si ricompatta sui minimi valori comuni della narrativa progressista, è anche vero che dopo quasi tre decenni di «compromessi storici», il popolo progressista chiede un cambiamento profondo. Non a caso in Grecia il Pasok è ai minimi termini, in Spagna il Psoe combatte contro Podemos, in Italia il Pd vede avvicinarsi nei sondaggi il M5S e persino negli Stati Uniti è stato il senatore del Vermont Bernie Sanders, che si definisce «socialista democratico», a battere Hillary Clinton nei sondaggi per le primarie del Partito Democratico nel New Hampshire e nell’Iowa. (fr)

3 COMMENTI

  1. Corby la nuova speranza della sinistra? lo spero, si rafforzerebbero Syriza e podemos e quello scherzo di natura blair ed il suo seguace renzi………..durante lo sciopero della compagnia del canale della manica, della quale mi sfugge il nome, io udii di persona blair dire ai sindacalisti “voi siete tramontati, siete una casta in dissoluzione, siete il ricordo dell’800” no pasaran

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