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Sabina, nasce il Museo diffuso della Resistenza

Si inaugura il 25 ottobre a Poggio Mirteto (Rieti). Un progetto pilota per un turismo della memoria nei luoghi dell’eccidio del Tancia e della prima zona libera d’Italia

mappa della zona libera
mappa della zona libera

di Maurizio Zuccari

«Con la liberazione di Cascia, Monteleone, Aruscio, Norcia, Leonessa, Albaneto, Poggio Bustone e le rispettive frazioni dei Comuni sopra citati, nonché i Comuni della Valnerina Alta, la Brigata Garibaldina a tutt’oggi ha liberato circa mille chilometri quadrati di territorio. Migliaia e migliaia di lavoratori sono stati liberati dalla schiavitù nazifascista. Questo Comando mentre invita i cittadini a collaborare con i partigiani per le necessità delle popolazioni liberate, rende noto che il territorio sopra descritto, con limiti: La Valle di Ferentillo, Castiglioni di Arrone, Rivodruti e Albaneto, è considerato staccato dalle Province di Terni, Perugia e Rieti, città ancora sotto il dominio nazifascista, e legato alla città di Cascia, da questo momento considerata capoluogo di tale territorio. Perciò la Brigata Garibaldina Gramsci è l’unica autorità operante in detto territorio, che degnamente rappresenta l’Italia democratica». È il 16 marzo 1944 quando il comando della Brigata partigiana Gramsci emana questo proclama dalla sede dell’albergo Italia di Cascia. È infatti in Sabina, a cavallo tra Lazio e Umbria, con epicentro a Cascia, che si costituisce alla metà di marzo del 1944 la prima repubblica partigiana, assai prima che in Val d’Ossola. Una zona libera di oltre mille chilometri quadrati che avrà vita effimera, neanche un mese, ma rappresenta il primo esempio di resistenza armata organizzata al nazifascismo in Italia. Un’esperienza presto repressa con il rastrellamento nell’Alta e Bassa Sabina e sul Monte Tancia, nell’operazione denominata Osterei, Uova di Pasqua, tra il marzo e l’aprile del ’44, a poche settimane dalla liberazione di Roma.

invito 25 ottobre 2015
invito 25 ottobre 2015

È in questi luoghi che prende il via il Museo diffuso della Resistenza in Sabina. Si tratta di un percorso di circa dieci chilometri alla riscoperta di un pezzo importante della storia recente, sul territorio che ha visto nascere la prima zona libera d’Italia, teatro della lotta armata contro l’occupazione, della battaglia del Monte Tancia e delle stragi nazifasciste di Leonessa e Monte san Giovanni. Prima tappa di un sito museale all’aperto, il museo si inaugura il 25 ottobre a Poggio Mirteto (Rieti) con una visita guidata mattutina e un convegno pomeridiano nella sala comunale, coordinato dal sottoscritto, e rappresenta l’avvio di un progetto curato dalla fondazione Nenni che vuole coinvolgere i Comuni di Roma, Monterotondo e Rieti per la conoscenza e la fruizione di itinerari storici della Resistenza, alla riscoperta dell’entroterra sabino e laziale anche da questo punto di vista. Già all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 si costituisce sul territorio della Sabina tiberina una formazione partigiana denominata Banda d’Ercole, collegata al Centro militare clandestino, organizzato a Roma dal colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Comandante militare della banda, che prende il nome dal suo fondatore, il maggiore Patrizio D’Ercole, è il tenente Carlo Baldassarri. Nell’area opera pure la banda Strale, collegata anch’essa al centro militare. Contemporaneamente, nella zona di Poggio Mirteto si costituisce una squadra di sabotaggio di cui fanno parte antifascisti locali, soprattutto comunisti, guidati da Redento Masci. Il raggruppamento assume successivamente la denominazione di brigata autonoma Stalin, fondendosi con la banda D’Ercole e assumendo il nome D’Ercole-Stalin, alla quale si aggregano soldati sbandati, ex prigionieri di guerra fuggiti dai campi della zona e renitenti alla leva.

Poggio Mirteto, la piazza principale nel 1940
Poggio Mirteto, la piazza principale nel 1940

I partigiani iniziano a operare compiendo attentati lungo la linea ferroviaria Roma-Orte-Firenze. La prima operazione, nata in modo pressoché fortuito il 14 settembre 1943, è la distruzione di un treno carico di viveri e munizioni e del treno presidenziale di Mussolini fermi allo scalo di Poggio Mirteto per evitare i bombardamenti alleati su Roma. All’azione partecipano lo stesso Masci e il giovane sottufficiale del genio Giorgio Labò, diventato in seguito uno dei due artificieri dei Gap romani, catturato e fucilato nel marzo ‘44. Già il 23 ottobre 1943 la banda conta il suo primo caduto: Mario Dottori, ucciso mentre cerca di far saltare un ponte ferroviario in località Galantina. A lui è dedicata una piazzetta in paese. La resistenza è attiva in particolare nel nord della regione, ai confini con l’Umbria, dove il 16 marzo 1944 avviene la storica proclamazione del Territorio libero di Cascia, Norcia e Leonessa da parte della brigata garibaldina Gramsci, dopo gli scontri a Poggio Bustone – dove viene ucciso, con una dozzina di repubblichini, il questore Bruno Pannaria – e in altre località che avevano portato alla liberazione di una vasta fascia di territorio compreso nelle province di Rieti, Perugia e Terni. Ad assumerne il comando è il comunista titino Svetozar Lakovic, commissario politico Alfredo Filipponi. Nessun collegamento viene però attivato coi gruppi operanti nella Bassa Sabina dove, sempre nel marzo ‘44, viene costituito un comando unificato sul Monte Cosce, coordinato dal maggiore Aimone Manni, mentre si aggregano alla Brigata D’Ercole-Stalin molti gappisti romani, guidati dai membri del Pci Nino Franchillucci e Luigi Forcella, riparati nella zona per sfuggire ai rastrellamenti culminati nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, il 24 del mese. La brigata, così rafforzata, compie vari sabotaggi, attaccando pattuglie e convogli che transitano verso il capoluogo di provincia attraverso il Monte Tancia, dove ha il suo rifugio.

Terzo da destra, in basso, Svetozar Lakovic (Toso), comandante della Gramsci
Terzo da destra, in basso, Svetozar Lakovic (Toso), comandante della Gramsci

Sentendosi minacciato, il prefetto repubblichino di Rieti, Ermanno Di Marsciano, già federale fascista della città, chiede l’intervento dei tedeschi che d’altra parte hanno bisogno di “ripulire” la zona dai partigiani in vista dell’imminente abbandono del caposaldo di Cassino e della ritirata da Roma. Così, in coda alla vasta operazione di rastrellamento iniziata la notte del 31 marzo nel Territorio libero – dove si contano quasi 300 morti e circa 700 rastrellati, in massima parte civili, mentre le bande partigiane si dileguano senza impegnare battaglia – da parte del raggruppamento guidato dal colonnello Ludwig Schanze, poi sostituito nell’incarico dal maggiore Hermann Wilcke, all’alba del 7 aprile, vigilia di Pasqua (il cosiddetto venerdì di sangue) un reparto di SS della divisione Brandenburgo, coadiuvati dai militi fascisti della Gnr, al comando dello stesso Di Marsciano iniziano il rastrellamento del Tancia da tre direzioni. I partigiani rimasti sul posto si dispongono in altrettante squadre per bloccare le vie di accesso. Lo scontro a fuoco si protrae fino al pomeriggio, quando la formazione di circa 80 elementi riesce a rompere l’accerchiamento ma sul terreno, in località Arcucciola, restano 7 corpi.

Monte Tancia, lapide ai caduti
Monte Tancia, lapide ai caduti

I caduti sono in gran parte romani: i fratelli Franco e Bruno Bruni (medaglia d’oro alla memoria) di 18 e 21 anni, Giordano Sangalli, di 16, Nello Donini (18), Domenico Del Bufalo (20), Alberto Di Battista (22), e Giacomo Donati (36). Altri due partigiani vengono presi e fucilati a Castel San Pietro, un terzo all’Osteria del Tancia. Complessivamente cadono 10 patrioti. Intanto proseguono le rappresaglie contro i civili. Quello stesso 7 aprile vengono catturati il podestà di Poggio Mirteto Giuseppe De Vito, accusato di connivenza con gli antifascisti, Giuseppe Felici (già membro dei Gap romani, ferito nello scontro del Tancia), il poggiano Diego Eusebi e il giovane studente milanese Giannantonio Pellegrini Ghislaghi. Due giorni dopo, il 9 aprile, domenica di Pasqua, vengono fucilati a Rieti in località Quattro Strade, insieme ad altri 11 patrioti. Come già nella ex zona libera, i nazifascisti infieriscono sulla popolazione locale. Nella frazione di San Michele del Comune di Monte San Giovanni catturano anziani, donne e bambini e li rinchiudono nella chiesola omonima mentre danno fuoco alle case, poi li radunano in uno spiazzo dove vengono trucidati con la mitragliatrice. Le vittime sono 15, tra le quali sei donne, di cui una incinta di sette mesi, 3 vecchi e 6 bambini: una bimba di appena 18 mesi, due di 4 anni e due di 6. Si salvano, perché nascoste dalla madre, due bambine: una di 3 mesi e l’altra di 7 anni. Altri 3 anziani vengono uccisi nella frazione Gallo. Ancora un tributo di sangue Poggio Mirteto paga nelle ultime ore dell’occupazione nazista. Il 10 giugno i tedeschi in ritirata bombardano con colpi di mortaio la piazza del paese, dove si sono riunite le persone attirate da un comunicato che annuncia la distribuzione di generi alimentari. Muoiono in 14, tra le quali 3 donne. Altre 9 persone, soprattutto ragazzi e anziani, periscono per le mine rimaste inesplose nel territorio. Ai martiri dell’Arcucciola, o della libertà, è dedicata la principale piazza del paese e viene concessa la medaglia d’argento al valor militare, come pure alla brigata D’Ercole-Stalin. Nonostante i vari processi, i responsabili delle stragi non hanno mai pagato. Il Museo diffuso della Resistenza è un omaggio a loro, alle vittime, ma calato nell’oggi, perché la memoria non sia solo un ricordo.

www.mauriziozuccari.net

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