Come ricostruire le lotte necessarie, che mettano zeppe nelle scelte del governo e della Confindustria e nei meccanismi del capitalismo?
Alcune istantanee raffigurano lo scenario italiano.
Il governo sta elaborando una legge di stabilità (deve essere presentata in Parlamento il 15 ottobre) la cui cifra appare già ora segnata da nuovi cospicui regali ai padroni e da piccole elemosine ai più diseredati.
La moderata ripresa economica non comporta una riduzione della disoccupazione; il centro studi della Confindustria infatti ci informa che “ le persone a cui manca lavoro in tutto o in parte” sono circa 7,7 milioni; le crisi e le ristrutturazioni aziendali continuano tanto è vero che all’inizio di settembre ben 166 imprese (che impiegano circa 200.000 lavoratori) avevano un tavolo di confronto con il Ministero del Lavoro per problemi di ristrutturazioni ed esubero, a cui si aggiungono le aziende impegnate nei tanti tavoli regionali.
Sempre al Ministero del lavoro le richieste dei sindacati sui temi pensionistici trova il niet del governo; le direzioni sindacali parlano di mobilitazioni che però non vengono mai attivate.
La precarietà (l’80% dei nuovi contratti non è a tempo indeterminato) e i bassi salari sono la cifra del presente e il governo sembra intenzionato a rimangiarsi anche i magri aumenti promessi ad oltre 300mila lavoratori e lavoratrici del pubblico impiego. In 7 anni di blocco delle retribuzioni, tanto per fare l’esempio degli insegnanti, sono stati loro rubati in media 12mila euro.
Consapevoli che prima o poi si potranno determinare reazioni sociali significative, le forze padronali, il loro governo e i loro partiti pensano di colpire ancor più il diritto di sciopero.
Mentre il ministro Minniti è riuscito nell’impresa di chiudere i passaggi nel Mediterraneo per lasciare morire i migranti nei lager libici e nel deserto del Sahara e mentre il Parlamento ha rinviato sine die lo stesso debole progetto di legge sul “ius soli” un sondaggio ci spiega che il 46% degli italiani, “si sentirebbe in pericolo” di fronte ai migranti.
Sono fotografie che mostrano i risultati sociali ed economici delle politiche liberiste delle classi dominanti ed anche l’enorme responsabilità che grava sulle direzioni sindacali per non aver costruito nei corso degli anni una lotta unitaria contro le politiche dell’austerità. Le conseguenze sono la divisione e la contrapposizione tra i diversi settori di lavoratori, l’avanzata del razzismo e della xenofobia, la crescita delle destre e dell’estrema destra negli strati popolari del paese in un quadro generale di degrado ideologico e di imbarbarimento che travolgono anche i più elementari concetti di umanità.
Ci sono certo soggetti e settori sociali che vogliono reagire a questo presente oscuro; ci sono lotte per la difesa dell’occupazione; c’è desiderio di riconquistare diritti e un salario dignitoso ci sono iniziative di grande solidarietà verso i più deboli e i migranti; c’è ancora chi prova ad unire i soggetti dispersi delle classi subalterne; ma tutti questi tentativi sono ancora frammentati e troppo deboli di fronte alle dinamiche economiche e alle scelte delle forze capitalistiche. Le forze di sinistra che discutono legittimamente di come costruire una prospettiva politica alternativa allo stato delle cose esistente nelle prossime elezioni, dovrebbe però darsi come primo ed irrinunciabile compito il lavoro per comporre questo mosaico di resistenze e di lotte potenziali, insieme a tutti i pezzi del sindacalismo di classe e ai movimenti sociali democratici che in varie forme si pongono queste problematiche.
La disoccupazione e come affrontarla
Il tema dell’occupazione e in particolare dell’occupazione giovanile è centrale per il futuro della classe lavoratrice e delle classi popolari.
Da anni il governo attiva una sola ed unica ricetta a due facce: regalare valanghe di soldi, miliardi di euro, ai padroni, riducendo loro le tasse e i contributi affinché siano indotti ad assumere giovani e togliendo diritti ai lavoratori per offrire ai “datori di lavoro” una invitante libertà di licenziamento e di sfruttamento. Non è un caso che questa deregulation stia producendo una drammatica crescita degli omicidi bianchi.
Il risultato di queste misure governative rasenta lo zero sul piano occupazionale ma è di certo molto positivo su quello dei profitti, che era il vero ed unico scopo del Jobs Act. La legge finanziaria riproporrà ancora una volta questo modello (vedremo con quali modalità) accompagnato dalla solita propaganda che questo “servirà a dare lavoro alle nuove generazioni disoccupate” e dalla vergognosa contrapposizione tra vecchi e giovani, coi primi accusati di difendere vetusti e inaccettabili privilegi. Il Presidente dell’INPS, Boeri, lavora giorno e notte per arrivare al suo obiettivo – per nulla nascosto – di ricalcolare tutte le pensioni in atto con il sistema contributivo!
Resta il fatto sul piano occupazionale che nel capitalismo i padroni assumono solo e sempre il numero di persone di cui hanno bisogno dal punto di vista dei loro interessi.
Perché gli oltre 20 miliardi dati ai padroni con gli sgravi fiscali non sono stati usati dallo stato per costruire iniziative economiche, industriali, di messa in sicurezza del fragile territorio della penisola per creare posti di lavoro utili alla società e decentemente retribuiti?
La battaglia per l’occupazione può essere vincente e produttiva solo se di fronte alle ristrutturazioni e alle innovazioni tecnologiche che ci sono state e a quelle che verranno (industria 4.0) il lavoro esistente sarà redistribuito tra quelle/i che ne hanno bisogno, riducendo l’orario di lavoro, oggi ormai fino a 32 ore o anche 30 (in Italia e in tutta Europa), a parità di salario. Altrimenti le innovazioni e l’aumento della produttività, cioè il cosiddetto “progresso” sarà solo a vantaggio dei padroni, producendo invece disoccupazione precarietà e bassi salari per la maggior parte della classe lavoratrice. Tutta la storia del novecento è la storia della lotta degli operai per ridurre l’orario di lavoro a parità di salario tanto più in presenza di continue innovazioni produttive.
La riduzione dell’orario si deve esprimere in due forme: quella quotidiana della durata settimanale del lavoro, ma anche quella dell’arco della vita di una/un lavoratrice. Si deve andare in pensione prima, riducendo la durata complessiva del lavoro (la fatica) di una persona e garantendo così che i giovani possano sostituirli ed avere un’occupazione.
Per questo non solo bisogna impedire che l’età pensionabile cresca ancora, ma occorre abrogare tutti gli infernali dispositivi della legge Fornero (che, occorre ricordarlo non è la legge della sola Fornero, ma è una legge voluta dai padroni, sostenuta dal PD e dalle destre). (Su tutta la tematica pensionistica si rimanda all’articolo di Eliana Como.
Serve però un ulteriore strumento per dare una prospettiva di lavoro a tutte e tutti; serve un piano di investimenti pubblici in grado di creare un alto numero di posti di lavoro sicuri le cui finalità siano rivolte a garantire produzioni e servizi utili e necessari al benessere dei cittadini e agli equilibri complessivi dei territori.
Solo l’intervento pubblico può darsi queste finalità che sono in contrasto con le logiche del mercato e dei profitto dei singoli capitalisti sia presi singolarmente che come classe nel loro insieme.
Le lotte dell’autunno e lo sciopero generale
Come fare per respingere i progetti di Gentiloni/Renzi e della Confindustria e per contrastare le destre, comprese quelle estreme, ma anche il M5S che in questi ultimi mesi ha mostrato su tanti temi la sua vocazione liberista e reazionaria?
Come ricostruire le mobilitazioni necessarie, le sole che possono mettere delle zeppe nelle scelte del governo e della Confindustria e nei meccanismi del capitalismo? Come cioè produrre un’attivazione capillare dal basso sui luoghi di lavoro per arrivare infine a uno sciopero generale che permetta alla classe lavoratrice di tornare protagonista e di far valere le sue ragioni?
In proposito è necessaria una precisazione. Da tempo sciopero generale significa una giornata di astensione generale dal lavoro dimostrativa ancorché combattiva. Difficile che sia sufficiente a far fare marcia indietro a Gentiloni. Nella storia del movimento operaio sciopero generale significa invece una prova di forza generale e prolungata nel tempo per piegare l’avversario di classe.
In proposito può essere utile esaminare l’esperienza e i problemi che si sono posti in Francia nella lotta contro la “Loi du Travail”.
Nessuno ha le ricette in tasca e sarà in ogni caso un percorso lungo costruire una mobilitazione generale in autunno tuttavia alcuni strumenti sembrano essere indispensabili anche perché si deve lavorare a diversi livelli e in diversi ambiti.
C’è una prima elementare necessità di far riconoscere tra di loro le lotte in corso, di unire aziende anche tra loro vicine che conducono battaglie per l’occupazione, di coinvolgere i territori circostanti.C’è la necessità di condurre battaglie politiche perché le direzioni sindacali che le gestiscono escono dalla logica del “si salvi chi può” per proporre la logica di unità nella lotta e di obiettivi comuni.
C’è una battaglia specifica da condurre in quel che è il più grande sindacato italiano, ancora significativamente radicato, la CGIL, che da tempo ormai ha una direzione fortemente compromessa con le scelte governative e responsabile attraverso le sue categorie di aver firmato i cosiddetti “contratti di restituzione”. La minoranza di opposizione scrive infatti:
“La Cgil è già in vistoso ritardo e il dubbio che assista di nuovo immobile (o con qualche altra raccolta di firme, sic!) a quanto accadrà è più che legittimo. Se la Cgil è giustamente contraria ai provvedimenti che si stanno discutendo, si mobiliti subito. Essere contrari, ma non mobilitarsi con iniziative di lotta e sciopero è inutile! Dobbiamo chiedere in tutte le sedi e in tutte le iniziative che la Cgil si impegni in una campagna di mobilitazione fino allo sciopero generale”.
Per parte loro i diversi sindacati di base, denunciano le scelte di collaborazioniste e neocorporative delle direzioni sindacali confederali e, confortati dalla buona riuscita del recente sciopero nei trasporti, pensano di poter utilizzare il clima di insofferenza presente tra i lavoratori per cercare di fare un salto di qualità nella loro azione sindacale, avanzando un programma di obiettivi di classe.
Per questo alcuni di esse hanno già indetto uno sciopero generale per la fine di ottobre ed anche proposto un’assemblea un mese prima per prepararlo.
Si è aperta però una discussione sulla data dello sciopero e sul rapporto tra le diverse componenti, come già in altre occasioni assai difficile, anche se traspare qualche consapevolezza in più sul fatto che una proposta di sciopero generale non può essere una sola bandierina piantata su un terreno terribilmente accidentato, ma che deve saper coinvolgere molti lavoratori in più rispetto al passato e che questo è possibile solo se i sindacati di base saranno capaci di una efficace azione unitaria.
Per parte nostra possiamo solo auspicare che le/i militanti di queste organizzazioni e i loro gruppi dirigenti riescano a produrre una più forte consapevolezza e ragionevolezza e quindi questo passo avanti unitario.
Il problema tuttavia non è solo la convocazione unitaria di uno sciopero generale e la volontà meritevole, ma generica di voler unire e rendere solidali le diverse categorie di lavoratori, al di là del settore industriale e dell’azienda di appartenenza. Lo sciopero generale esiste solo se riscontra una reale adesione di massa.
Nelle condizioni attuali dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro l’attività per costruire uno sciopero generale è enorme, presuppone costruire assemblee, discussioni, interlocuzioni, un lavoro capillare assolutamente necessario, ma che non garantiscono in ogni caso sulle possibilità di successo.
Coloro che giustamente difendono l’idea di un sindacalismo di classe e di lotta devono saper prendere l’iniziativa, ma devono anche avere la capacità di rapportarsi ai milioni di lavoratori organizzati ed iscritti alle più grandi confederazioni e segnatamente a quella che per la sua storia presenta le maggiori contraddizioni tra la sua linea attuale e i suoi militanti.
Anche perché è di certo utile una mobilitazione ancorché parziale e noi come organizzazione sosterremo le iniziative di sciopero indette e/o confermate, ma resta il fatto che serve una lotta ancora più ampia, compresa la necessità di creare le condizioni per cui anche una forza come la CGIL sia costretta a qualche iniziativa di mobilitazione. Attenzione non è un problema di unità con i dirigenti della CGIL, ma di unità nella lotta della classe lavoratrice e della possibilità di una certa efficacia nella ridefinizione dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro.
Per questo ci sembra ragionevole l’auspicio, che è un programma di lavoro e di intervento, della minoranza della CGIL:
“In questo quadro, è importante lavorare affinché la spinta arrivi dal basso, con mobilitazioni, iniziative e scioperi nei posti di lavoro, tanto sulle pensioni e sul diritto di sciopero, quanto sulla vertenza dei lavoratori e delle lavoratrici del settore pubblico. Solo una conflittualità diffusa, nei posti di lavoro, nelle fabbriche, nelle scuole e nelle università può determinare un cambio di passo e una spinta a muoversi della Cgil e a non frammentarsi dei sindacati di base.”
Naturalmente però anche questa “spinta dal basso” difficilmente si produrrà spontaneamente nelle condizioni date, presupponendo invece un’azione attiva, propositiva e unitaria dei quadri sindacali di classe, cioè un’azione di direzione. E’ il compito che attende tutte e tutti i militanti a qualsiasi sindacato appartengano che vogliano ricostruire la partecipazione alla lotta delle lavoratrici e dei lavoratori; è la sfida dei prossimi mesi.