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Sgombero sudanesi. Dall’integrazione alla strada nella Roma di Raggi

Sgombero di Via Scorticabove. Storia di Ismael e dei suoi compagni. Imbarazzante contegno del Comune di Roma

di Frannie Carola Zarca

Sulla strada, col caldo che fa, Ismael insiste per farmi sedere sull’unica sedia recuperata dall’edificio di via Scorticabove, dove abitava stabilmente la comunità sudanese del Darfur da tredici anni, fino al 5 luglio, giorno in cui la Comunità, tutti rifugiati politici, è stata sgomberata.

Molto c’è da imparare sull’accoglienza, da coloro che pensiamo di accogliere.

La comunità, che da anni si autogestisce, ha attivato una rete di solidarietà e mutualismo interna, nei confronti di coloro che hanno difficoltà; ora è in strada, buttata fuori casa dalla polizia, perché lo stabile è privato, senza che sia stata predisposta prima una valida e dignitosa soluzione alternativa. Il Comune di Roma vuole infatti dislocare queste persone, titolari di protezione internazionale, costringendole a fare un enorme passo indietro: dall’autonomia e l’integrazione duramente conquistate, farle retrocedere all’assistenzialismo di base, cancellando un enorme percorso intrapreso e un intero vissuto comunitario che è divenuto un punto di riferimento per le persone del Sudan e per il territorio stesso.

«Ho messo piede in Italia il 26 marzo del 2003 a Crotone – racconta Ismael – ho preso prima il permesso di soggiorno temporaneo e dopo cinque giorni sono venuto a Roma dove ho raggiunto alcuni amici che stavano alla stazione Tiburtina, in un edificio per ferrovieri che divenne l’Hotel Africa. Siamo rimasti li per circa un anno: eravamo in tanti, cittadini eritrei, somali, sudanesi, etiopi, marocchini. Dopo un po’ di tempo ci hanno detto che avremmo dovuto lasciare l’edificio; noi abbiamo accettato, ma dovevano trovarci un altro posto perché era diverso tempo che vivevamo lì e ci sentivamo a casa. Eravamo tante persone, circa 320, tra il 2003 e il 2004. Abbiamo fatto un accordo dove ci hanno detto che avrebbero trovato un posto per noi. Ci hanno fatto vedere prima una fabbrica vecchia, ma non abbiamo accettato perché non era in condizioni vivibili. Poi siamo venuti qui: questo posto era un magazzino, ma noi abbiamo accettato. Ci hanno detto di aspettare solo un po’ di tempo perché doveva essere sistemato, andavano fatti i bagni e gli allacci per la cucina, predisposte le stanze. Nel febbraio o marzo del 2005, non ricordo esattamente, siamo venuti ad abitare qui. Mi ricordo che era sindaco Veltroni. Noi abbiamo chiesto se c’era la possibilità di gestire autonomamente lo spazio, anziché essere affidati a un’associazione, ma non avendo un’associazione di riferimento riconosciuta, ci hanno detto che non potevano affidarci direttamente la gestione del servizio. In realtà noi avevamo un’associazione ma non era ancora attivata; si chiamava Arci Darfur e stiamo ancora cercando di attivarla. Così la gestione dello spazio di accoglienza è stata affidata alla cooperativa “Casa della solidarietà”.

All’inizio abbiamo stabilito che parte del sistema interno lo avremmo gestito noi, ad esempio la cucina. I primi tre giorni hanno portato loro da mangiare perché non erano ancora allacciati i fornelli alle prese del gas, ma successivamente abbiamo sempre organizzato noi la spesa e la cucina, e tutto questo è andato avanti fino al 2015. La cooperativa era presente ma noi gestivamo gli spazi interni e le attività quotidiane; eravamo già in una situazione di semiautonomia, ed abbiamo continuato a gestire da soli tutto quanto fino a ieri, quando hanno ci staccato tutto in cucina e nei bagni, mentre ci sgomberavano. La gestione, in compresenza con la cooperativa, è andata avanti bene, fino al 2015: poi c’è stata una truffa da parte della cooperativa, hanno fatto un “gioco”, dicono che è stato per “mafia capitale”. Il Comune ha detto che aveva pagato molti soldi per questa associazione e ha detto che non poteva pagare ancora. Sembrava che ci fosse, appunto, un gioco delle parti; noi della Comunità ne stiamo facendo le spese ma non c’entriamo niente. Dal momento che gestivamo le spese di casa e della cucina ci sembrava strano che il Comune dovesse pagare tutti quei soldi per noi. I problemi sono stati da parte della cooperativa. Intanto andavano avanti le indagini per i fatti di “mafia capitale”, dove la cooperativa era implicata, ma di certo noi eravamo fuori da quei “giochi”. La cooperativa è uscita dicendo che non avevano soldi per pagare gli operatori.

Dal 2015 abbiamo costituito un’associazione che è nata da un comitato interno dove discutiamo dei problemi e cerchiamo sempre di trovare insieme delle soluzioni nel rispetto di tutti, così risolviamo sempre ogni difficoltà. Abbiamo organizzato al meglio la gestione della casa, dalle pulizie alla cucina alla manutenzione dell’edificio stesso, facendo ogni tipo di intervento e riparazione necessaria. Infatti l’edificio sta benissimo, vorrei farti vedere se ti fanno entrare. Fino a ieri è andato tutto bene, eravamo organizzati alla perfezione. Ieri un mio amico mi chiama e mi dice che la polizia è entrata dentro casa, di prendere le cose e di andare fuori. Io in quel momento ero al lavoro e non potevo raggiungere gli altri. Sono arrivato e ho visto tutti in strada e la polizia che faceva portare via tutto. C’erano con noi tante persone che vengono nel periodo dell’emergenza freddo, erano arrivati fotografi, giornalisti, associazioni. Abbiamo fatto un’assemblea; dopo molte ore è arrivata l’assessora Baldassarri, ma sembrava fare una specie di “filosofia politica” piuttosto che cercare di trovare una soluzione valida e risolvere questo problema. Alla fine ha detto che si potrà fare un incontro giovedì prossimo, dove parlare insieme, ma ha specificato che non assicura affatto una soluzione.

L’unica soluzione, al momento è solo, secondo lei e la Giunta, l’assegnazione di posti letto in centri di accoglienza e dormitori dislocati nella capitale, nemmeno per tutti nel’immediato, dove ci si alza la mattina presto e si rientra la sera. Abbiamo ribadito che questa non era una casa occupata ma in regola, dove i posti sono stati assegnati dal Comune. I problemi sono derivati dalla cooperativa che gestiva il servizio e che è rimasta implicata in Mafia capitale; cosa c’entriamo noi da dover essere, ora, sgomberati e buttati in mezzo a una strada, con la prospettiva di tornare nei centri di accoglienza, dopo aver fatto un percorso di autogestione e autorganizzazione che funziona? Ci sono regole, diritti dei rifugiati così come abbiamo dei doveri che rispettiamo. C’è il diritto internazionale, c’è una Costituzione, eppure ci ritroviamo in mezzo a una strada senza aver fatto nulla di male. Inoltre da parte del Comune non era mai arrivato un preavviso circa il rischio di sgombero. Noi aspettiamo e speriamo che trovino una soluzione adeguata per noi, senza dover ricominciare il percorso nei centri di accoglienza, visto che siamo ormai una comunità che è in grado di autogestirsi, dove la maggior parte di noi lavora e siamo perfettamente integrati con tutte le realtà circostanti. Perché dovremmo tornare indietro? Noi rimaniamo fino a giovedì, aspettiamo questo nuovo incontro con l’Assessora.

Se ci sarà una soluzione da parte del Comune lo ringrazieremo, ma chiediamo quello che dovrebbe essere un diritto-dovere. Noi rimaniamo in regola. La vita che abbiamo fatto prima di venire qui non è stata affatto facile. Se abbiamo un diritto noi ringraziamo e prendiamo quello che ci possono dare, se alzano le mani e dicono che noi siamo qua da tempo e non possono fare nulla, noi non possiamo andare contro il governo o lo stato, conosciamo la regola e se non ci sono alternative vediamo come possiamo risolvere. In questo tempo che siamo rimasti qua noi ringraziamo il Comune e ringraziamo la comunità sudanese che ha accolto sempre le persone che ne avevano necessità. Io sono una delle prime persone entrate in questo centro e sin da subito abbiamo avviato una gestione condivisa e solidale della casa. Non tutti lavoriamo e così ci aiutiamo tra di noi, creiamo un fondo comune che è anche a disposizione di chi non lavora, che non può comprarsi da mangiare, perché tutti dobbiamo poter stare bene, non lasciamo in difficoltà un nostro fratello. Non facciamo distinzioni tra chi ha chi non ha, tutti devono potersi vestire, mangiare e mangiamo tutti quanti sempre insieme.

Tutto stava andando bene, la vita comunitaria era organizzata nel migliore dei modi. Noi siamo qui perché la comunità internazionale ha riconosciuto il genocidio nel nostro paese, ma non interessa a nessuno. In Italia il protocollo della protezione umanitaria prevede che nei paesi dove ci sono dei dittatori sanguinari le persone che fuggono hanno diritto alla protezione internazionale, ma poi nella maggior parte dei casi questo protocollo non viene applicato e i dittatori non vengono fermati né condannati e continuano a torturare e ad uccidere il popolo, non possiamo tornare nel nostro Paese. Noi vi ringraziamo per essere sempre vicino a noi in questo momento; non ci avete mai lasciati soli. Sappiamo che non tutti gli italiani sono cattivi, che molti di loro hanno una coscienza buona e umana che guarda alla vicinanza. Bisogna sempre mettere insieme le mani che unite diventano una voce più grande, un plauso che arriva più forte in alto. Non bisogna allontanarsi ma unirsi. Chi non ti riconosce non ti vuole bene. Se noi ci riconosciamo, ci confrontiamo anche guardano i punti negativi e cerchiamo di risolverli, rimaniamo sempre insieme a costruire la vita, partecipando. Così sarebbe un bene per tutti quanti. Noi lo diciamo sempre alle amministrazioni, ai politici: noi non siamo caduti dal cielo, non avremmo voluto lasciare il nostro paese che è molto bello, ma una cattiva gestione dove non c’è una regola chiara per condannare e chiunque può essere colpito senza motivo. Per questo noi facciamo un lungo viaggio, anche se vediamo giornalmente tanta gente innocente morire in mare».

Termina così il racconto di Ismael, 48 anni, commerciante ambulante, uno dei rifugiati sgomberati da questo stabile del quartiere S.Basilio, periferia est di Roma. Ogni sera un’assemblea fa il punto della situazione e vi partecipano le realtà solidali e di lotta per la casa da tutta la città (Baobab, Arci, PaP, Bpm, Asia Usb). Mentre scriviamo stanno spuntando dei gazebo percé è prevista una nottata di pioggia. Imbarazzante il contegno della giunta Raggi di fronte al diritto di persone riconosciute da anni titolari di protezione umanitaria. Sarebbe stato sufficiente applicare l’articolo 42 della Costituzione per la requisizione temporanea dello stabile in attesa di una soluzione efficace magari tra le decine di edifici pubblici in disuso che punteggiano questo quadrante di Roma. La soluzione millantata dall’assessora Baldassari, oltre a sbriciolare una comunità solidale, rigetterebbe nel circuito dell’emergenza l’esistenza di uomini che da quell’emergenza s’erano illusi di essere definitivamente usciti.

 

Nei dispacci di agenzie del 5 luglio, poche tracce dell’umanità e della consapevolezza che restituisce Ismael: Sgomberato uno stabile occupato da una cinquantina di migranti in via di Scorticabove, alla periferia est di Roma. Sul posto polizia, carabinieri e polizia locale. Secondo quanto si è appreso, si tratta di un immobile dismesso dal 2015 di proprietà di un’azienda. L’edificio in passato sarebbe stato adibito a centro di accoglienza per migranti e poi occupato da alcune decine di immigrati, prevalentemente sudanesi. «Il centro di via Scorticabove nato a seguito dello sgombero del cosiddetto Hotel Africa nel 2004 – spiega Federica Nunzi responsabile immigrazione dell’Unione Inquilini – era divenuto un’autogestione quando nel 2013 il Comune uscì dalla gestione. Una situazione sempre procrastinata e che oggi nonostante gli annunci di rinnovamento da parte del M5S non vediamo nulla di nuovo con uno sgombero inumano, come lo era stato quello di via Curtatone». «Noi non siamo criminali, siamo rifugiati politici. Stamattina ci hanno cacciato di casa senza neanche farci prendere le nostre cose che sono ancora dentro», denunciano alcuni rifugiati sgomberati. «Qui ci sono anche cittadini italiani – continua uno dei rappresentanti della comunità sudanese – sono arrivati senza neanche avvisare con un po’ di anticipo. Adesso dove andiamo? Siamo tutti per strada senza sapere dove andare». Rimarranno lì fuori tutta la notte, e le notti successive, accampati come possono i 100 rifugiati sudanesi. Scrive sul suo profilo Twitter Baobab Experience: «I rifugiati sudanesi hanno deciso di rimanere sulla via. Chiedono supporto di associazioni e cittadinanza per accamparsi stanotte». «L’assessore Laura Baldassarre sta offrendo posti letto temporanei nelle strutture d’emergenza ai sudanesi sgomberati questa mattina da via Scorticabove. La comunità vuole rimanere unita e si oppone».

 

 

 

 

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