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Assolto con formula piena Aldo Milani, crolla il teorema contro il SiCobas

Sbattuto in prima pagina per una presunta estorsione ma è innocente. Assolto Aldo Milani, leader del SiCobas

Assolto con formula piena, per non aver commesso il fatto. Per Aldo Milani s’è chiusa, forse, al tribunale di Modena la vicenda che lo ha coinvolto con l’accusa infamante di estorsione dentro un’operazione orchestrata da polizia e procura. Perché Milani è un sindacalista, leader del SiCobas, uno dei sindacati di base, conflittuali, protagonista delle lotte dei facchini della logistica che nel 2017 era stato sbattuto in prima pagina per una presunta estorsione ai danni degli imprenditori Levoni, proprietari dell’azienda Alcar Uno di Castelnuovo Rangone, una delle aziende che spremono senza pietà la manodopera soprattutto straniera grazie alle infinite possibilità dei meccanismi delle finte cooperative di facchini. Un video muto in cui si vede il passaggio di una busta dall’ad della Levoni a un “consulente” in giacca e cravatta, è tutto quello che la questura di Modena mise a disposizione dei trascrittori di veline. Il clamoroso arresto “per estorsione” ottenne una copertura mediatica fuori dal comune per un mainstream giornalistico abitualmente cieco e ottuso di fronte alle vicende del sindacalismo combattivo. Troppi giornalisti si sono prestati alla pratica di sbattere il mostro in prima pagina senza altra prova se non quella fornita dalla questura: una velina e un video a cui era stato scientemente tolto l’audio. “Ecco il film della mazzetta”, «Pagate 90mila euro per la cassa di resistenza e non ci saranno altre mobilitazioni», sono solo alcuni dei titoli comparsi a suffragare l’idea di una violenza strumentalmente pilotata durante le proteste. «Non abbiamo vinto solo noi, ma tutti coloro che lottano contro questo sistema di sfruttamento e oppressione!», è il primo commento del SiCobas

I fatti contestati dalla procura di Modena risalivano alla fine del 2016 e all’inizio del 2017. Secondo l’accusa, Milani avrebbe preteso tra i 60 e i 90mila euro dai Levoni, per fermare i picchetti dei SiCobas di fronte allo stabilimento, una protesta attivata a fronte delle condizioni di lavoro di alcuni dipendenti di coop in appalto all’azienda stessa. Nello stesso fascicolo l’intermediario Danilo Piccinini, di Ferrara, in abbreviato è stato condannato a due anni e quattro mesi. Milani si è sempre detto estraneo ai fatti, parlando di un «trappola orchestrata ad arte per fermare il sindacato». L’arresto di Milani e Piccinini era stato compiuto dalla squadra mobile.

L’esultanza dopo l’assoluzione

«Su Aldo Milani non c’è nulla – aveva spiegato a Popoff, la legale del SiCobas, al termine dell’udienza preliminare e dopo aver letto gli atti  –  perfino i Levoni nella loro denuncia chiariscono che non hanno assolutamente idea del suo eventuale coinvolgimento». Era il 28 gennaio di due anni fa. Milani era stato scarcerato sebbene con obbligo di dimora in Lombardia e l’obbligo di firma dopo aver ribattuto punto per punto alle accuse nell’udienza preliminare. Piccinini, legato a una delle cooperative che forniscono manodopera all’azienda dei fratelli Levoni, s’era avvalso della facoltà di non rispondere. Già dalle prime ore dopo l’arresto, il SiCobas aveva smentito la sua appartenenza al sindacato e s’era chiesto che cosa ci stesse a fare al tavolo della complessa trattativa.

I 52 licenziati di Alcar Uno, filiera Levoni, all’atto di fare richiesta di accesso alla NASPI, avevano scoperto che le cooperativa Alcar Uno, in appalto per Levoni, non aveva versato i contributi INPS utili a maturare l’assegno di disoccupazione. Milani ha chiesto che Levoni saldasse quest’ammanco, «ovviamente non certo consegnando del denaro liquido bensì versando le somme contributive mancanti attraverso le modalità previste dalla legge così come risultanti dai modelli F24!».

Il teorema di Modena fu una bomba contro il SiCobas e contro la possibilità per tutti che possano esserci pratiche sindacali conflittuali che, molto spesso, in questi anni hanno conseguito successi che le tiritere concertative non sono mai state in grado di conseguire. Negli hub, a macchia di leopardo e specialmente al nord, centinaia di persone hanno manifestato assieme ai lavoratori SiCobas condividendo lo sdegno e l’incredulità per una vicenda giudiziaria che aveva tutto il sapore di una trappola, di una montatura.

I confederali, che vedono come fumo agli occhi le pratiche non concertative, non hanno perso l’occasione di blaterare sulla legalità: «I fatti di Modena ancora una volta evidenziano le distorsioni presenti nel settore della logistica che versa in uno stato di degrado – scrivono unitariamente Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti – sono in atto dinamiche distorte che denunciamo da anni e che inquinano l’intero settore e danneggiano i diritti e le condizioni dei lavoratori. Con l’istituzione del ‘Tavolo della Legalità’ del 2014 abbiamo chiesto un intervento strutturato del Governo per ripristinare regole e modalità trasparenti nonché attivare misure di contrasto ad ogni forma di illegalità». Una delle dinamiche distorte, però, la più dannosa per chi lavora, è perfettamente legale: la condiscendenza dei sindacati confederali ai dictat padronali, la subalternità ai governi, la rinuncia a dare voce ai bisogni dei lavoratori. Distorta, come dinamica, anche la “prudenza” nei confronti della macchina del fango sul SiCobas da parte di chi considera competitor ogni esperienza sindacale estranea alla propria parrocchietta. Con pochissime eccezioni (per esempio la minoranza Cgil, Il Sindacato è un’altra cosa, l’Adl, i lavoratori e delegati indipendenti Pisa), le sigle di base sono state timidissime nell’esprimersi su questa vicenda. Una cartina di tornasole non solo della repressione ma anche dell’incapacità di tutti di relazioni decenti tra le reti sociali e le sigle del sindacalismo di base.

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